Sempre più potere al comando UE

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Le elitè politiche europee si muovono per restringere gli spazi di “dissenso”, accentrando ancora di più il potere decisionale a Bruxelles. Dai titoli dei giornali si apprende quanto deciso settimana scorsa:

LaRepubblica: “Von der Leyen e Macron aprono alla modifica dei trattati Ue: “L’unanimità in settori chiave non ha più senso”

Linkiesta: “Dopo le parole di Draghi sul superamento del principio di unanimità, la plenaria di Strasburgo oggi dovrebbe approvare con un’ampia maggioranza un documento che chiede la convocazione della “Convenzione” per cambiare le leggi fondamentali dell’Unione. Francia, Italia e Germania valutano l’idea di portare rapidamente la richiesta all’esame del Consiglio

Da Euronews un allarme: “Ue, riforma dei trattati e superamento del voto all’unanimità: “Attenzione a un vulnus democratico”

Pubblichiamo l’intervento del prof. Aldo Ferrara come invito a riflettere.

Oltre l’Ucraina, occhio alle spinte autonomistiche e riforme dei Trattati UE

Gli occhi sono puntati sull’Ucraina, ma in casa UE non mancano fermenti emergenti. Ansa 2.5.2022: “Il Parlamento europeo, settimana prossima, attiverà l’articolo 48 e chiederà l’avvio di una convenzione per cambiare i trattati fondanti dell’Ue“. Così ha tuonato con le spalle alla presidenza dell’emiciclo di Strasburgo, l’eurodeputato belga Guy Verhofstadt. Nella penultima mattinata dei lavori della Conferenza sul Futuro dell’Europa (CoFuE) le 178 raccomandazioni emerse dai panel dei cittadini sono state riassunte in 49 proposte. Alcune implicano modifiche radicali delle regole di funzionamento dell’Ue, la creazione di una difesa comune e l’istituzione di liste transnazionali. Non solo: dall’esercizio di democrazia partecipativa emergono anche istanze sociali come il salario minimo e l’abbandono dell’allevamento e dell’agricoltura intensiva. L’indicazione, insomma, è chiara: l’Europa dovrebbe essere più vicina ai suoi cittadini. Questo appello si inscrive forse nel tentativo delle minoranze politiche europee di rendersi autonome dagli Stati aderenti a testimonianza di un fermento che deriva da Stati ingessati e incapaci di far fronte a situazioni di massima gravità come quella ucraina.

Per ricapitolare in modo sintetico le strade dell’autonomia sono tre:1

Quella della Autonomia, cavalcata nello Statuto Siciliano che individuava ragioni di indipendenza non separatista, una volta messi da parte Finocchiaro Aprile, l’Evis e la banda Giuliano che volevano fare dell’Isola la 51ma stella americana. Autonomia amministrativa con Statuto speciale.

Quella della Indipendenza o Autodeterminazione, amministrativa, fiscale, legislativa e su ogni fonte di cespite. E’ il caso della Catalogna che vanta il 20% del PIL iberico, che ha tradizioni culturali, linguistiche ed economiche differenti ma non discostanti da quella spagnole.

Quella della Secessione che significherebbe rottura e antagonismo politico con frattura insanabile, balcanica come è avvenuto in Kossovo, Cecenia e paesi in cui il dettato costituzionale non c’è o stenta ad avvalersi.2

Nel Regno Unito si vedono pulsioni contrapposte: da un lato la Scozia che sente forte il battito autonomistico. La stessa lingua è di derivazione celtica, distinta dal celtico irlandese ma sempre di matrice gaelica. Dal 2006 la lingua ufficiale della Scozia è il gaelico scozzese, derivato dal gruppo delle lingue celtiche la cui diffusione è in prevalenza nel Nord del Regno Unito (Irlanda e Scozia). Gli scozzesi sembrano aver superato il problema della identità nazionale, questo è rilevabile nei numerosi referendum che si sono succeduti negli ultimi anni. Pur definendosi “Scottish not British”, nelle recenti elezioni locali hanno inferto una sonora batosta alla Premier Nicola Sturgeon, capo del SNP, Scottish National Party, da sempre secessionista.

Negli ultimi tempi le elezioni hanno dimostrato che le tendenze separatiste sono sostenute dalla metà degli scozzesi ma non arrivano ad essere maggioritari. Al di là del percepito, una vera rivendicazione secessionista non esiste perché poco conveniente. Un’ipotesi secessionista riproporrebbe un quesito più consistente: uscire dalla Gran Bretagna significherebbe entrare nella UE. E questo scenario appare francamente foriero di problemi. La Scozia dovrebbe rinunciare a 39 miliardi di sterline di trasferimenti e dovrebbe versare alle casse UE un contributo consistente dato che gode di un PIL molto alto. La stessa gestione del petrolio del mar Artico e del pescato sarebbe più complessa avendo l’UE come interlocutore piuttosto che Downing Street. Oltretutto la gestione della risorsa fossile è messa in discussione dai verdi che sono una forza essenziale del governo di Nicola Sturgeon l’attuale Prime Minister. Quindi l’intera tendenza scozzese verso la secessione è fatta più da deterrente che di fattuale impegno. Dopo il fallimento dell’ultimo referendum del 2014 -55.3% di NO contro il 44.7 di SI- il governo britannico ha istituito una Commissione per una più concreta devoluzione di poteri per approfondire lo scenario con una commissione istituita per una previsione secessionista (Sustainable Growth Commission). Ha indicato in circa 10 anni il periodo di assestamento con il mantenimento della sterlina, con deficit annuo del 6% circa per pagare al Regno unito 5 miliardi di sterline l’anno per gli impegni assunti di partecipazione al debito britannico3. Il bilancio allora detta le regole di un mantenimento dello status quo pur con le rivendicazioni di rito gaelico scozzese. In ultimo, nelle elezioni locali del 2022, è venuta meno la storica maggioranza dello Scottish National Party di Nicola Sturgeon, con il Labour Party da Anas Sarwar, un odontoiatra di Glasgow, allontanando definitivamente ogni ipotesi secessionista. Ma i problemi restano e ruotano su una problematica assai simile a quella italiana della concorrenza legislativa Stato-Regioni ( art. 117 Co.). La questione, nota come West Lothian, riguarda il diritto di voto dei parlamentari delle Regioni con un governo decentrato (Irlanda del Nord o Ulster, Scozia e Galles) su leggi esclusive dell’Inghilterra. Sempre nel Regno Unito, alle elezioni del maggio 2022, l’Irlanda del Nord, nota anche come Ulster, ha registrato la vittoria del Sinn Fein, il partito cattolico di sinistra, nato sulle ceneri del suo braccio armato l’IRA, che ha condotto una campagna elettorale puntando sulla forte spinta autonomistica, se non addirittura secessionista con la prospettiva di riunificarsi alla nazione irlandese. La vicenda dell’IRA che squassò l’UK negli anni sessanta e settanta ha accusato il colpo e gli estremisti sono stati allontanati per consentire un inserimento del Sinn Fein nella piena legalità istituzionale. Fatto sta che le pulsioni centrifughe secondo le tre diverse gradazioni descritte in Europa non mancano. Gli analisti dunque prestino attenzione non solo al recente appello del Parlamento Europeo sulla necessità di dover cambiare anche con una certa radicalità e sollecitudine i Trattati vigenti, TUE e TFUE ma alle sollecitazioni che arrivano dai territori europei.

Aldo Ferrara

1  Ferrara A.-Planetta E. Next UE, Aracne ed., Prefazione di Felice Besostri, in press

2  Ferrara A. Autonomia, Indipendenza, Secessione. GliStatiGenerali.com, 17 ottobre 2017

3  Scotland – the new case for optimism. A strategy for inter-generational economic renaissance, Sustainable Growth Commission, May 2018.

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