Quando il 2 aprile 2020 il Presidente americano contribuisce, con l’ormai non più insolito mezzo del tweeter (riportato in figura) , al frenetico diffondersi di notizie sul prezzo del greggio, il mondo degli affari non presta più attenzione al fondamento e alla completezza della notizia tanto attesa al di là di ogni realismo: “Ho parlato con il mio amico re saudita che ha parlato con Putin e mi aspetto e spero che entrambi riducano la produzione di 10 milioni di barili.” La reazione emotiva è immediata e le quotazioni, molto calate nel mese di marzo, riprendono del 25%.
È un momento cruciale per gli Usa all’inizio di una emergenza sanitaria che svela una insospettata fragilità e una crisi occupazionale senza precedenti dal dopoguerra. L’industria petrolifera negli Stati Uniti vale 10 milioni di dipendenti e un numero triplo di voti in Stati importanti, e le prospettive stanno iniziando a farsi drammatiche.
Uno scenario impensabile alla fine del 2019 con gli USA primo estrattore di petrolio e anche esportatore del bene. La Russia aveva portato i volumi di produzione a quasi 11 milioni di barili al giorno nei primi mesi del 2020, lungi dal prevedere le conseguenze del calo della domanda. Il suo obiettivo era quello di portare il prezzo così in basso da rendere non conveniente l’estrazione di parte del petrolio americano, quello shale oil che richiede costi più alti di produzione e stoccaggio.
Il Regno Saudita aveva replicato portando la produzione da 9,7 milioni di barili al giorno a 12 milioni. Risultato: il prezzo da USD 67,31 di fine anno 2019 si era dimezzato a USD 32,01 a fine Marzo 2020. Ci vogliono almeno 10 giorni prima che l’aspettativa e speranza dell’inquilino della Casa Bianca diventi realtà, ma il prezzo sembra aver cessato la sua discesa.
È in quei giorni che un importante mutamento è avvenuto anche negli Stati Uniti: il temuto Big State con annessa propaganda, uno spettro di paesi totalitari e inadatti alla democrazia, proietta la sua ombra anche nella realtà statunitense. Per alcuni giorni gli americani credono che una volontà politica possa prevalere su una logica inesorabile del mercato quale la richiesta del bene. Una illusione di breve tempo. Infatti non è tanto la regolazione dell’offerta del prodotto, attraverso la limitazione volontaria della produzione, ma il drammatico calo della domanda a rendere in breve tempo l’accordo privo di efficacia. Il consenso infatti si basa su un calo stimato di 10 milioni di barili al giorno ma il diffondersi del lock-down anche negli States, porta un abbassamento di 23 milioni rispetto ai 100 milioni grossolanamente indicabili come richiesta “normale “ del bene.
Di fronte a questo scenario inedito, tanto l’industria petrolifera quanto il governo americano hanno modificato parecchio il loro approccio alla questione. Per anni il partito repubblicano ha corteggiato i piccoli produttori che hanno fatto del mercato libero una bibbia.
L’OPEC è sempre stato ai loro occhi un cartello straniero opaco, certo mai affidabile per una qualsivoglia stabilizzazione del prezzo. Adesso i consiglieri del governo non esitano a indicare nella frammentarietà dell’offerta le ragioni della debolezza del sistema in termini di produzione e stoccaggio.
Come riportava Limes già nel numero di gennaio. la quota di petrolio non convenzionale, il già citato shale oil, estratto con il procedimento fracking, rappresenta i due terzi della produzione nazionale. “Nelle regioni dove il boom produttivo è letteralmente esploso (Texas e New Mexico ) i quantitativi di greggio sono diventati talmente sovrabbondanti che non si dispone di infrastrutture logistiche adeguate a commercializzare verso l’esportazione” . Questo in periodi “normali “. Con un calo del23% nella domanda globale ma forse più grande negli USA , l’inadeguatezza dello stoccaggio diventa un problema ingestibile.
Il governo interviene garantendo volumi di stoccaggio aggiuntivi incrementando la Strategic Petroleum Reserve di quasi 80 milioni di barili e nel contempo eroga prestiti alle piccole imprese e sovvenziona corsi di riqualificazione dei lavoratori. Misure difficilmente compatibili con il credo liberista.
Il 20 aprile il prezzo raggiunge un livello così basso che i giornali efficacemente riportano che i produttori sono disposti a pagare chi viene a prenderselo. Molte soluzioni intuitive non sono praticabili. La produzione non può essere ridotta per decreto governativo, (chi e quanto dovrebbe ridurre?) e la tenuta tecnica degli impianti ne risentirebbe. Più di ogni cosa però incidono le quotazioni delle vendite di ottobre a 30 dollari che fanno sconsigliare un repentino blocco.
Non è neanche possibile mettere dei dazi sulle importazioni di petrolio estero e dedicare tutto il consumo nazionale all’industria domestica: si tratta infatti di due qualità diverse. Il prodotto locale è in gran parte “leggero” e inadatto a essere raffinato nelle vecchie raffinerie USA fatte a suo tempo per trattare greggi pesanti e importati.
Resta la possibilità di moltiplicare la capacità di stoccaggio ma Trump ha già riempito le caverne della Strategic Petroleum Reserve, come abbiamo visto. Un’alternativa è quella di far comprare al governo ingenti quantità ancora da estrarre, una sorta di voucher restaurant, per esagerare un poco, forse ragionevole ma al di fuori delle logiche di libero mercato. Ed è questo il nodo più difficile: salvare piccoli produttori trasformando le loro aziende in zombies artificiali, per usare una terminologia in passato cara ai liberisti. Il pragmatismo può prevalere ma anche un principio pericoloso quale quello della necessità d’intervento pubblico anche in altri settori in crisi.
Infine la soluzione più immediata: far ripartire l’attività economica. Una misura radicale, estrema e rischiosa che può avere una sola seria giustificazione strategica per l’industria petrolifera: evitare il quadro ancora più fosco di un inarrestabile declino segnato dal divorzio tra Big Money e Big Oil.
In termini più chiari, la paura che il mercato possa divorziare dal petrolio.
Un quadro rappresentato dal Daily Telegraph, giornale conservatore britannico, certo non propenso alle esagerazioni. Il petrolio non morirà, resterà l’opzione favorita ancora per anni, con un prezzo più basso, ma non quella indispensabile. Nell’incertezza futura, le cifre del probabile andamento economico suggeriscono, nella più ottimistica previsione in caso di veloce ripresa delle attività economica, un contenimento del calo a giugno (15 milioni barili al giorno rispetto al livello normale della richiesta,) e una lenta ripresa fino a dicembre, quando lo scostamento dei valori normali della domanda sarà del 2,5 %
In uno scenario così negativo c’è solo la parziale consolazione che la distruzione del valore del greggio ha danneggiato avversari storici come Russia, Venezuela e Iran e compromesso le certezze di amici troppo indipendenti quali Saudi Arabia e Emirati. Le schermaglie navali con l’Iran nel Golfo Persico e il concentrarsi di navi militari nelle acque della Guyana davanti al Venezuela sono un segnale di ammonimento a quanti credono che l’emergenza possa compromettere le capacità di reazione dell’Impero USA.
Questo a sei mesi dalle elezioni presidenziali più incerte della recente storia USA
Fonti citate:
The real Trump twitter 2nd April 2020m. Milano Finanza:
“Russia e Arabia Saudita potrebbero tagliare la produzione di greggio di almeno 10 milioni di barili al giorno. L’annuncio è arrivato con un tweet del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. “Ho appena parlato col mio amico MBS (principe della corona) dell’Arabia Saudita”, si legge nel tweet, “che ha parlato con il presidente russo Putin e mi aspetto e auspico che taglieranno circa 10 milioni di barili, e forse sostanzialmente di più che, se dovesse accadere, sarebbe ottimo per l’industria del petrolio e del gas”.
Limes – gennaio 2020 – America contro tutti – Margherita Paolini – Il primato energetico USA ha i piedi di argilla
Daily Telegraph -30 Aprile 2020 – Ambrose Evans Pritchard Climate activists should not fear: Oil is moving closer to the end game