Riconoscimenti a chi lavora: un po’ di storia italiana.
Il 1° maggio 1898, per festeggiare il lavoro Umberto I datò il regio decreto di quattro righe istitutivo della Decorazione al merito agrario, industriale e commerciale. Fu il riconoscimento di quanto l’Italia doveva non solo a “santi, poeti e navigatori” e ai patrioti che si erano sacrificati in tante battaglie, ma anche agli “imprenditori” senza titoli nobiliari né, a volte, di studio. Orgogliosi del proprio lavoro, mattone su mattone, voltando e rivoltando le zolle e al timone di manifatture, industrie e imprese bancarie e commerciali, che concorrevano quotidianamente a costruire la Nuova Italia. Proprio nella primavera del 1898, la guerra tra la Spagna e gli Stati Uniti d’America, che sobillavano l’insorgenza di Cuba e delle Filippine contro Madrid, fece impazzire il prezzo dei noli marittimi e, conseguentemente, dei cereali, la cui importazione era fondamentale per la bilancia alimentare dell’Italia, soprattutto nella crisi congiunturale di primavera, quando scarseggiano le scorte dell’anno precedente e i raccolti sono ancora di là da venire. A fine aprile dalla Romagna a Napoli vennero segnalate le prime rivolte al grido: “Pane!”. Il Re e il governo non percepirono subito il rischio che il Paese stava correndo. Il 1° maggio sovrano e esecutivo, inaugurarono a Torino l’Esposizione Nazionale: vetrina delle potenzialità delle manifatture tessili e delle industrie metallurgiche e meccaniche. L’Esposizione fu accompagnata da iniziative culturali (nell’occasione il giovanissimo Luigi Einaudi scrisse “Il principe mercante”) e dalla Mostra di Arte Sacra, a dimostrazione che trent’anni dopo Porta Pia le due rive del Tevere erano meno distanti. Del resto su quelle del Po il “dialogo” tra le istituzioni e gli ecclesiastici non era mai stato interrotto. Se Camillo Cavour aveva sempre contato su fra’ Giacomo da Poirino per il giorno fatidico della Grande Visitatrice, l’agnostico Urbano Rattazzi finanziava sotto banco don Giovanni Bosco, che arrivava dove Stato e amministrazioni locali erano e a lungo sarebbero rimaste in ritardo. Crispi lanciò l’appello all’unione “Per Dio, per la Patria, con il Re” contro i demoni che uscivano dalle “nere latebre della terra”. Ne avevano dato un saggio i devastanti “fasci siciliani”, sospettati di essere eterodiretti dalla Francia che sommava imperialismo e socialismo di stato.
Se il 1° maggio il Re e il Governo rendevano onore al lavoro italiano a Torino, quello stesso giorno iniziarono tumulti e assalti a fornai e mulini dalla Puglia alla Campania, dall’Emilia alla Toscana. I focolai di rivolta erano troppi per apparire spontanei. Era lecito sospettare che venissero alimentati e coordinati dall’esterno, in combutta con rivoluzionari interni. In pochi giorni i tumulti divennero insurrezione generale, guidata da frange della piccola borghesia e da avanguardie studentesche, come a Pavia, ove negli scontri con le forze dell’ordine cadde ucciso Muzio Mussi, figlio di uno tra i maggiorenti dei radicali milanesi, Giuseppe Mussi, massone, poi da Vittorio Emanuele III creato senatore del regno. Il 5 maggio i socialisti di Milano pubblicarono un “Manifesto” per richiamare all’attenzione la rivolta della fame e della disperazione serpeggiante nel Paese e per deplorare il ricorso governativo alla proclamazione dello stato d’assedio che sostituiva i codici ordinari con quelli militari e consentiva l’impiego delle armi contro i dimostranti come nemici in guerra. I socialisti invocarono l’abolizione del dazio doganale sulle farine per calmierare il prezzo del pane: una misura accettabile e infatti subito varata da molte amministrazioni. Ma andarono oltre: denunciarono il “militarismo a servizio di alleanze cui il popolo è estraneo, di interessi dinastici, di privilegi odiosi e anticivili”. Passati dal terreno economico-sociale a quello propriamente politico, incitarono i dimostranti a “stringersi compatti attorno alla bandiera socialista…”. Seguirono giorni di eccessi verbali, di scontri sanguinosi e di arresti di quanti furono sospettati di voler precipitare l’Italia nel caos: i socialisti Filippo Turati e Oddino Morgari, il repubblicano Luigi De Andreis e don Davide Albertario, promotore della prima Democrazia Cristiana, non esente da pulsioni antisemite. Il generale Bava Beccaris usò il pugno di ferro e talvolta sbagliò bersaglio, confondendo poveri barboni con rivoluzionari da fermare a cannonate. Prevalse la paura. Non erano il re e il governo a “fare le leggi”, toccava al Parlamento discuterle e approvarle. Toccava ai deputati e ai senatori “rimboccare le maniche”, mettersi “alla stanga” come in Italia qualcuno recentemente ha ricordato al “ceto politico”, inconsapevole o distratto, come si è veduto in questi giorni. Umberto I affermò più volte che occorreva armonia tra il governo e l’istituto parlamentare. Umberto I, il 29 luglio 1900, fu assassinato a revolverate a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, punta dell’iceberg della ‘cospirazione’ contro la stabilità dell’Italia e dell’Europa. Il regicidio chiuse due anni di speranze, tensioni e contraddizioni.
Vittorio Emanuele III e l’Italia del lavoro
Quasi tutti pensarono che il nuovo re, Vittorio Emanuele III, trentunenne, avrebbe capitanato un’onda reazionaria. Invece, si circondò di persone sagge, smantellò le ambizioni di cortigiani, dette ascolto e, come gli consigliò l’anziano Pasquale Villari, fece di testa sua. Aveva studiato, in un’epoca in cui molti ritenevano che per governare fosse sufficiente una divisa e una spada, imboccò tutt’altra via e impose il suo metodo: razionalità e massima apertura alle riforme, senza però dimenticare che “chi rompe paga”. Nel 1901, riprendendo il proposito di suo padre e d’intesa con il presidente del Consiglio Giuseppe Zanardelli, democratico, Vittorio Emanuele III istituì l’Ordine cavalleresco al merito agrario, industriale e commerciale, da conferire sia a imprenditori, sia a loro dipendenti. Per questi nel 1923 venne istituita la Stella al merito del lavoro, tuttora ambìta. I Cavalieri del Lavoro affiancarono i Senatori tanto da ascendere tra i patres di uno Stato che già tra Otto e Novecento era dichiaratamente “fondato sul lavoro”.
Aldo A. Mola