Nel diluvio di parole vuote e di circostanza che si è abbattuto su questo trentennale di “Mani pulite”, mi è capitato per fortuna di ascoltare anche cose sensate. Il Tg1 ieri sera (ndr. 16 febbraio) ha messo a confronto due protagonisti della rivoluzione che travolse la Prima Repubblica senza però crearne una Seconda, migliore della precedente. Si tratta di due punti di vista che all’epoca militavano su fronti opposti.
Il primo è quello di Claudio Martelli, vice segretario del Psi di Bettino Craxi. Ha parlato di una «falsa rivoluzione» che provocò vittime (anche innocenti) quasi esclusivamente nel campo della politica, lasciando indenne gran parte del mondo imprenditoriale e -aggiungo io- l’alta burocrazia, che certo non erano estranei al sistema della corruzione. Martelli ha precisato che non è giusto darne la colpa esclusivamente alla magistratura.
Ci furono responsabilità gravi – era il sottinteso – innanzitutto della politica, incapace di comprendere che si era conclusa la fase storica che aveva prodotto la corruzione dilagante, e quindi che era giunto il momento di voltare pagina. Conclusione: in questi trent’anni è stata chiesta un’autocritica solo a noi politici, adesso tocca ai giudici.
Ed ecco, a bomba, l’altro punto di vista, quello del magistrato Gherardo Colombo, uno degli eroi del pool milanese.
Colombo ha parlato delle legittime ragioni che spinsero la giustizia a intervenire in modo così massiccio contro il sistema dei partiti. Aggiungendo però un’amara riflessione: Mani pulite fallì perché perse il consenso popolare quando il popolo capì che prima o poi la magistratura avrebbe aggredito anche le pessime abitudini consolidate nella cosiddetta “società civile”.
Insomma, ci fu un grande abbaglio che generò l’illusione che un fenomeno così diffuso e radicato come quello della corruzione, si potesse affrontare soltanto attraverso l’azione penale, mentre sarebbe stata necessaria una profonda, duratura azione di bonifica per estirpare la “cultura dell’illegalità” che alligna in ogni campo.
Superfluo aggiungere da parte mia che sono completamente d’accordo con entrambi, avendo scritto a suo tempo con Giovanni Pellegrino un libro intitolato “Il morbo giustizialista” (Marsilio, 2010), che analizzava gli errori sia della politica che della magistratura.
Se i vecchi partiti furono travolti perché incapaci di cambiare, è altrettanto vero che si è rivelato profondamente sbagliato il principio ispiratore della “rivoluzione giudiziaria”. E cioè la convinzione da parte della magistratura, della grande imprenditoria e dell’alta burocrazia che, finita la guerra fredda, si fosse esaurita anche l’era della politica, un inutile impaccio, e fosse giunto il momento dei mercati, che dovevano essere lasciati completamente liberi di esprimere tutto il loro potenziale di sviluppo economico. Principio enunciato in un convegno internazionale i cui atti vennero pubblicati soltanto in lingua francese e inglese, ma mai in italiano: sarebbe ora di rimediare.
Perché la lotta senza quartiere alla politica, lungi dal creare una cultura della legalità, ha prodotto soltanto una anti-politica ancora più incapace e corrotta. A beneficio esclusivo dei cosiddetti “mercati”.
Giovanni Fasanella