Il mistero di Dante e i molteplici significati delle parole

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Un pensiero per Natale da parte di CIVICA

La nostra semenza

Molti sono i ‘lasciti’ danteschi. In primis, il linguaggio. Nel Convivio, Dante ci offre una straordinaria testimonianza della potenza del linguaggio, della sua valenza polisemica: la stessa parola può avere molti significati ed è quindi indispensabile conoscere il codice che ne consente la decrittazione. “… le scritture”, dice appunto Dante, “si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie … L’altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna”. Una verità che va quindi compresa in tutto il suo (occulto) significato.

Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti”, una guida per ben agire. “Lo quarto senso si chiama anagogico” ed è quello che, se correttamente inteso, consente all’Uomo di realizzare la propria elevazione spirituale. L’insegnamento, per noi uomini del XXI secolo, è notevole, considerato che viviamo nell’era della comunicazione e che l’arte – o la scienza? – del trasmettere, come quella del ricevere comprendendo, sono essenziali per le nostre condizioni di vita. La lettera delle … lettere inviate da bocca ad orecchio, sia pure attraverso moderni sistemi di comunicazione a distanza, non basta mai per afferrarne il reale significato. Le parole, di per sé, sono, come appunto dice Dante, fittizie ossia … inconsistenti. Vanno ispezionate, analizzate, persino sezionate per comprenderle, per carpire il senso, autentico, del messaggio ricevuto. Dante ‘evoca’ l’allegoria, parola greca composta da allos, altro, diverso e agoreuo, parlo: una ‘tecnica’ molto antica che, attraverso il ricorso ad immagini significanti, consente di comprendere un concetto astratto. Emblematica, al riguardo, la “Allegoria del Buono e del Cattivo Governo” realizzata, alla metà del ‘300, da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena: attraverso una sequenza di immagini di forte valenza simbolica si illustra, didascalicamente, come si presenta e come agisce il potere politico quando sa sintonizzarsi con le necessità del suo popolo; e, all’opposto, come si presenta ed agisce l’altro tipo di potere, quello che opprime e sfrutta.

Per altro, ragionare per allegorie è anche una tecnica (raffinata) oggi utilizzata da tante professioni: in primis chi fa comunicazione ma anche quanti trattano la (delicata) dimensione della umana psiche. Infatti, una volta “decrittato” il linguaggio allegorico, lo psicologo ‘manipolatore di coscienze’ è in grado di agire su quella che Dante chiama sfera ‘morale’ del soggetto trattato: ossia può aiutarlo a interagire con i propri simili in modo adeguato  attraverso la condivisione di norme di comportamento, consuetudini, usanze – i mores – riuscendo così ad entrare in sintonia col sistema sociale, con l’umanità della quale fa parte. Se l’operazione coglie nel segno, e se questa consapevolezza viene adeguatamente assimilata – e quindi radicata – allora quel soggetto può aspirare a raggiungere il quarto livello indicato da Dante, quello anagogico: ossia può elevarsi spiritualmente, acquisendo quella condizione di saggezza e di equilibrio interiore di cui solo pochi uomini fortunati sono dotati. Anagogia, infatti, deriva dal greco anagogikos, ossia elevazione, innalzamento, da agein, agire ed anà, sopra.

Allora, se questa interpretazione delle quattro categorie del linguaggio secondo il padre Dante è giusta, possiamo constatarne la modernità e la congruenza con l’ideale della condizione umana. Ma Dante invia a noi disincantati uomini del terzo millennio un altro messaggio che, egualmente, occorre decifrare, quello del viaggio che attraversa i tre fatidici mondi, Inferno, Purgatorio, Paradiso. Dimensioni ‘altre’ che non sono fuori ma dentro ciascuno di noi e che appartengono, da sempre, alla nostra natura.

Da questo punto di vista, allora, l’ingresso nell’Inferno è una penetrazione nello spazio, oscuro e terrifico, delle umane passioni, pulsioni forti, incontrollabili, anti-sociali : odio, vendetta, rancore… I ‘peccati’, conseguentemente, non sono altro che l’espressione – codificata dalla teologia – di questi negativi sentimenti che, secondo il precetto catechistico della Chiesa Romana, si manifestano come mancanze “contro la ragione, la verità, la retta coscienza”. Ecco allora quello che ci propone Dante con la sua Commedia, un viaggio, nella nostra interiorità – tra le nostre ombre, direbbe Jung – che tende, in primo luogo, a renderci consapevoli degli abissi in cui possiamo cadere soggiacendo a quelle ‘cattive disposizioni dell’animo’, ‘punite’ col supplizio eterno. Come è noto i fatidici cerchi infernali sono nove e non comprendono solo i canonici sette peccati capitali della Tradizione Cattolica. Sono infatti ‘arricchiti’ da gironi, bolge, zone dove vengono confinati eretici, violenti, ruffiani e seduttori, adulatori e lusingatori, simoniaci, maghi ed indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari e traditori… Una gamma straordinaria di umane cattiverie, di vere e proprie perdizioni che, in vita, hanno tormentato i personaggi qui confinati.

Ecco allora che Dante, con la sua (lugubre) rappresentazione dell’Inferno, intende proprio offrire al lettore attento – capace di andare oltre la lettera del messaggio – una occasione per riflettere, in modo da renderlo consapevole dei vizi ai quali soggiace e che, se subiti, ne sviliscono la sua umana condizione. “Fatti non fosti a viver come bruti/ ma per seguire virtute e canoscenza…” dice Odisseo rivolgendosi ai suoi compagni. La virtù si consegue conoscendo, ossia attivando la dotazione più rilevante di cui disponiamo, la ragione. E allora, se davvero la Commedia è un viaggio interiore alla scoperta del Sé, “unità e… totalità della persona considerata nel suo insieme”, come la intende Jung, allora, l’Inferno dantesco rappresenta la terrifica dimensione delle umane debolezze; il Purgatorio, come luogo di (temporanea) espiazione, la transizione verso la conquista della virtù; il Paradiso, infine, la beatitudine dell’animo generata dalla visione salvifica dell’Eterno. In questo modo la Commedia funziona come una sorta di manuale del comportamento umano, una sorta di specchio indispensabile per riconoscersi e capire, come fa il Dorian Gray di Oscar Wilde quando si “rispecchia” nel suo famoso ritratto, dove è riflessa la propria vera immagine, abbruttita dalla propria viziosa condotta.

La Commedia si può allora leggere come una sorta di trattato di psicoanalisi?

Forse sì: una dotta istruzione a percorrere il viaggio più difficile per ogni Uomo, la vita.

Vinicio Serino*

*antropologo

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