Il Garibaldi giornalista
Luciano Garibaldi sapeva che l’“ordine dei giornalisti” era nato dall’Albo dei giornalisti professionisti voluto nel 1925 dal regime, quando Mussolini decise di imbrigliare definitivamente la libertà di stampa. Il duce non poté, perché è impossibile, soffocare quella di pensare. Ma sapeva bene che il libero pensiero appaga la persona libera ma non mina il potere, se non può essere scritto e diffuso sino a divenire opinione condivisa, tale da capovolgere i luoghi comuni imposti dall’alto. Il rapporto tra ricerca e divulgazione della storia è stato affrontato con coraggio da Luciano Garibaldi (da poco ci ha lasciati, qui il ricordo e qui), ci fa riflettere. Chi stabilisce la “veridicità”? La risposta pare semplice e immediata. Se chi scrive propone il risultato della ricerca e suffraga le sue affermazioni “documenti alla mano” ha motivo di essere credibile. Non significa che abbia enunciato la “verità definitiva”. Altri ha fatto o potrà fare meglio di lui. Però, quanto meno, anch’egli ha diritto di ascolto, anche se non ha titoli accademici, né ascrizioni a questa o quella “scuola storiografica”, non vanta tessere di partito, avalli editoriali o, come soleva dirsi, “santi in Paradiso”, inclusi ministri e sottosegretari in un’età di decadenza nella quale domina il principio che ogni nomina è “politica”. Allievo da ragazzo dei padri scolopi, poi dei gesuiti (due poli della pedagogia cattolica), Garibaldi non raggiunse la laurea. Non so se quando decise di interrompere gli studi universitari e optare per il giornalismo avesse già letto la pagina famosa in cui Luigi Einaudi propose l’abolizione del valore dei “diplomi” quale titolo di precedenza nei concorsi. Imboccò la strada che sentiva propria: la ricerca e la divulgazione dei suoi risultati. Un sentiero seminato di pietre aguzze, perché per percorrerla non occorre né basta una “patente”. Richiede un “mestiere” della cui correttezza si risponde a se stessi (una volta si diceva “alla propria coscienza”). Garibaldi rimarrà tra gli esempi rilevanti dello stretto rapporto tra piacere/dovere della ricerca storica e distillazione e comunicazione dei suoi esiti, ovunque possibile. Tramite i “media” in democrazia, con fogli clandestini o graffiti sui muri in quelli di autoritarismo e totalitarismo. I suoi libri, come le “inchieste” pubblicate nei periodici e gli interventi in dibattiti, rimasero però sempre circondati da una riserva, magari non esplicita, ma sottintesa. In fondo, egli non aveva “titoli”, però aveva una “parola” sorretta da tanta credibilità.
Proprio la storia di vita di Luciano Garibaldi (1), nella foto, che a lungo fu un campione della colleganza tra indagine e comunicazione tramite i “media” suggerisce di non chiudere il caso e di ricordare quanto la conoscenza della storia deve a persone che ne hanno scritto, e molto, per la “verità”, al di fuori degli schemi, senza attendere alcun “nihil obstat”, rischiando, anzi, l’espulsione dal campo.
…e Franco Bandini , vent’anni dopo.
Fu il caso di Franco Bandini (1921-2004), un altro scrittore che accompagnò gusto per l’indagine e divulgazione dei suoi risultati e merita di essere ricordato vent’anni dopo la sua morte. Il libro al quale intendeva legare la sua fama di storico, “Il cono d’ombra. Chi armò la mano agli assassini dei fratelli Rosselli”, uscì per le Edizioni SugarCo di Milano nel febbraio 1990. Il 31 marzo fu presentato al teatro “Garibaldi” di Poggibonsi, poco lontano da Colle Val d’Elsa, dal Casalone, ove, settantenne, viveva tra libri, fascicoli e una miriade di “schede”: miniera per i suoi studi e per gli amici che salivano a sentirne il verbo. La novità del libro stava nel metodo della ricerca. Secondo l’autore «è ovviamente inutile cercare e sperar di trovare documenti di prova (dell’infiltrazione dei “servizi” dell’Unione sovietica nel controspionaggio italiano in età fascista) anche perché i pochissimi che ebbero conoscenza o sospetto di essi giudicarono più opportuno tener la bocca chiusa, allora e poi, per le sorprendenti ragioni che si vedranno. Ma in questa torbida vicenda i fatti, narrati con serenità, costituiscono prove schiaccianti, arrivano addirittura a fornirci una globale e inedita spiegazione di avvenimenti e “momenti” apparentemente slegati da essi, che fino ad oggi han costituito altrettanti misteri nella storia dell’agonia del fascismo e dei suoi massimi personaggi».
Bandini non si propose di scrivere “chi” uccise Carlo e Nello Rosselli il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne. Sulla colpevolezza “materiale” della “selvaggia mattanza” perpetrata dai “cagoulards” non avanzò dubbi. Osservò tuttavia che gli autori del delitto, solitamente spacciati per “fascisti”, curiosamente assassinarono solo avversari del partito comunista sovietico e dei suoi più fedeli “affiliati”, quali all’epoca erano i comunisti italiani capitanati da Palmiro Togliatti. Come appunto recita il sottotitolo, Bandini mirò invece a rispondere alla domanda fondamentale: “chi armò la mano” dei sicari. L’opera si mosse su tre livelli concatenati, presenti in ogni pagina: quello propriamente storiografico, il politico e l’etico.
Secondo la narrazione tradizionale il duplice assassinio era stato commissionato da Galeazzo Ciano e messo a segno da suoi fiduciari (Filippo Anfuso, Santo Emanuele, Roberto Navale…: tutti infine scagionati in sede giudiziaria) tramite i “cagoulards”: era, in sintesi, la prova della criminalità intrinseca del “regime”. Però quel “racconto” non chiarì il “movente” dell’assassinio: perché il “fascismo” aveva motivo di uccidere i Rosselli a inizio giugno del 1937? Bandini ribadisce la non rilevanza “politica” di Nello, studioso innovatore del Risorgimento, molto apprezzato dallo storico nazionalista Gioacchino Volpe, che nel 1931 aveva scritto a “Sua Eccellenza Mussolini” per favorirne un lungo soggiorno di studio in Gran Bretagna, ottenendone una replica favorevole ma irridente. Quanto a Carlo Rosselli avanzò due quesiti concatenati: per controllarne gli spostamenti i “servizi” italiani dovevano superare enormi difficoltà. Meritava correre il rischio di essere scoperti solo se la sua brutale eliminazione era dettata da un alto “profilo politico”, tale da costituire una minaccia mortale per il regime (in quei mesi al colmo del “consenso”) o addirittura per lo Stato.
Il paradosso è che il libro di Bandini (2) uscì proprio mentre la caduta del muro di Berlino, la riunificazione della Germania e la dissoluzione del regime sovietico si ripercuotevano sul quadro politico interno e avrebbero dovuto spalancare porte e finestre a voci nuove, a una rilettura generale della storia. Invece, non rimase in alcun modo scalfita l’egemonia della “sinistra” basata sull’“unanimità dell’antifascismo”, garante della superiorità dei suoi eredi politico-culturali. Motivo in più per tornare a leggere le opere di Luciano Garibaldi, di un autore anticonformista come Bandini e di loro rari emuli.
Aldo A. Mola
(1) L’idea di Luciano Garibaldi sulla politica italiana degli anni cinquanta-settanta, riportata da Storia in Rete, è riassunta bene in questa sua frase: “Il comunismo era l’antinazione, la personificazione dell’asservimento ad una potenza straniera e sopraffattrice della libertà, il ricordo di una intollerabile violenza fratricida. In noi, diciottenni e ventenni di allora, giocava pesantemente l’eco recentissima dell’ondata sanguinosa che aveva travolto il Paese all’indomani della guerra civile”.
(2) La fragilità “politica” di Carlo Rosselli
Con vasta e meticolosa ricerca Bandini accertò quanto prima di lui nessuno aveva documentato. Temporaneamente privato della carta d’identità, Carlo Rosselli rinnovava annualmente il permesso di soggiorno, consegnatogli l’ultima volta il 15 maggio 1937, due mesi prima della scadenza del passaporto, che “aggiornava” tempestivamente. Su di lui l’Ambasciata italiana a Parigi trasmetteva ogni notizia “in chiaro” al Ministero degli Esteri, che pertanto era perfettamente informato sui progetti di viaggio di Carlo e della moglie, Marion Cave, sino all’ultima istanza di rinnovo, quando Rosselli ne chiese l’estensione per una dozzina di Paesi, tra i quali Olanda, Danimarca, Norvegia e Svezia e altri Stati “nordici”, e i due dichiararono di non avere intenzione di recarsi in Italia e «di non potere ancora stabilire quale sarà la meta del loro prossimo viaggio».
Reduce dalla non fortunata partecipazione alla guerra di Spagna, ove si era battuto a difesa della Repubblica di Madrid contro i “quattro generali” sorretti da Germania e Italia, Rosselli aveva maturato il rifiuto di collaborazione ulteriore con il partito comunista di Togliatti, Luigi Longo, Vittorio Vidali e del loro “mandante” Stalin. Li aveva visti all’opera nell’eliminazione degli anarchici. La scelta comportava l’archiviazione dell’arcaica “Concentrazione antifascista”, pullulante di informatori dell’Ovra e svigorita dal rientro in Italia di tanti antifascisti in esilio (lo ricordò Alberto Giannini nella terza edizione riveduta e aggiornata di “Le memorie di un fesso. Parla Gennarino “fuoruscito” con l’amaro in bocca”, Roma, 1948, ristampata da Arnaldo Forni) e, ancor più, qualsiasi avvicinamento ai comunisti. L’amara esperienza della guerra di Spagna costringeva a riflettere sui limiti politici e operativi della “terza via”, incluso il programma originario di “Giustizia e Libertà”, sintetizzato nella formula mazziniana “Insurrezione e Rivoluzione”. A identica conclusione giunse (con maggior fortuna personale) il repubblicano e massone Randolfo Pacciardi che, scampato di misura all’eliminazione fisica da parte dei “rossi”, dalla Spagna, ove ebbe un prestigioso comando a sostegno della Repubblica, raggiunse gli Stati Uniti d’America, forte di un’appartenenza massonica, incompatibile con il PCUS e i suoi addentellati, per i quali l’iniziazione ai misteri del Grande Architetto dell’Universo è indizio di asservimento alla borghesia.
Secondo Bandini lo schema esplicativo “tradizionale” del “delitto Rosselli” non ricalcava dunque i rapporti tra i partiti e movimenti antifascisti del 1937-1938 ma quelli del 1943-1946, fatti propri dalla “storiografia” postbellica, ispirata all’unità della lotta contro il regime mussoliniano e i suoi “complici”, inclusi la monarchia e l’esercito. In “Il cono d’ombra” Bandini lasciò cadere tanti sassolini per tracciare la strada di future ricerche proprie e altrui, anche con la speranza che si aprissero archivi e a qualcuno tornasse la memoria. Però, contrariamente a quanto si attendeva, quelle e altre suggestioni non sono state coltivate affatto. Lo si rilevò già nel convegno di Firenze dedicato alla sua opera a fine novembre 2006, con interventi di Gianni Bonini, Aldo G. Ricci, Marcello Veneziani, Luciano Garibaldi, Leonardo Tozzi, Enrico Cernuschi, Fabio Andriola e altri, concordi nel ricordare che egli era rimasto vittima della “damnatio memoriae” da parte della “sinistra”, ma era stato emarginato anche da larga parte del centro-destra. Con “Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico” di Mimmo Franzinelli (Mondadori, 2007) l’anno seguente tornò in auge la versione pre-bandiniana, anche se emendata dall’insostenibile idillio tra “G.L.” e comunisti. Franzinelli, anzi, stigmatizzò l’“appropriazione” strumentale della figura di Carlo Rosselli da parte del Pci.