Poco più di un mese fa, il 3 novembre, Giorgia Meloni ha annunciato in conferenza stampa che il Consiglio dei ministri aveva approvato un disegno di legge costituzionale sulla nuova forma di governo della Repubblica italiana, il ‘premieriato’ con l’elezione diretta del presidente del consiglio. A Roma da qualche mese in tanti ne parlavano, molti trattavano e spingevano per una soluzione o l’altra. Infatti, quest’estate prima delle ferie Renzi ha presentato la sua proposta, quella del ‘sindaco d’Italia’, a lui si è accodato il Governo con un DDL, breve, ma criptico in alcune soluzioni (la scheda unica, il premio ecc…). Il testo per andare alle Camere ha dovuto prima compiere un salutare stop al Quirinale: qualche aggiustamento, un ritocco di non poco conto e via al Senato alla 1° Commissione affari costituzionali.
Conferenza stampa del Consiglio dei Ministri n. 57 _ www.governo.it
Non si può dire che gli italiani ne sentissero l’urgenza, che avessero a cuore il problema di cambiare la forma di governo della Repubblica. La materia è ostica, per specialisti. Il sistema politico però è fatto così, quando gli scappa di fare una cosa la fa, a qualunque costo, con maggioranza e minoranza che insieme si scatenano. Così, dalla seconda metà di novembre il circo delle riforme ha ripreso la sua attività, associando i due DDL, dando avvio alle audizioni di autorità, esperti e parti sociali. Tutti vengono accolti nella sostanziale indifferenza, anche se il calcolo dei difetti, degli errori e dei vistosi strafalcioni del breve articolato governativo iniziano ad essere imbarazzanti, se fosse un tirocinante all’esame verrebbe rimandato a casa senza tanti complimenti. Ma, i tempi sono cambiati, anche una cosa storta può essere utile, in futuro ci sarà altro lavoro per metterla a posto, che giustifica uno e l’altro.
Questi sono i riti della politica romana: dieci minuti a testa per cinque articoli, due minuti per articolo, poco conta che quella modifica al singolo articolo della Costituzione potrebbe farci perdere anni in discussioni e feroci battaglie legali. A Milano l’Istituto di Studi Politici Giorgio Galli -ISPG- non si è intimidito di fronte a tale sufficienza, anzi, ha chiamato a raccolta donne e uomini di scienza, di buona volontà, a Scienze Politiche della Statale. Il 16 novembre si è tenuta una prima una videoconferenza (con Aldo Mola, Stefano B. Galli, F. C. Besostri e D.V. Comero e V. Serino), ma il testo definitivo non era ancora stato licenziato dal Quirinale, per cui c’era una certa incertezza sull’effettivo contenuto del DDL.
Qui la registrazione degli interventi, il programma, le foto e le slide di Comero.
A fine novembre al Senato le cose si sono avviate, per cui il 29, al primo incontro a Scienze Politiche alla Statale di Milano si è potuto ragionare su testo stabile, con un breve ciclo di riflessioni: la costituzionalista Angela di Gregorio (al centro nella foto sotto) con i colleghi Federico G. Pizzetti e Felice Carlo Besostri, con un taglio giuridico costituzionale.
Il tutto è stato preceduto dall’audizione in videoconferenza, come primo relatore, di Francesco Saverio Marini, avvocato e costituzionalista, l’estensore materiale del testo, quello che ha dovuto scrivere i desiderata della maggioranza di Governo, docente all’Università di Roma II Tor Vergata. Subito dopo è stato audito il costituzionalista Fulco Lanchester della Sapienza di Roma, che ha dato solidarietà a Marini per il suo ruolo di martire e capro espiatorio per un testo decisamente discutibile e da rivedere a fondo. Critiche argomentate sono arrivate dal successivo intervento di Besostri. L’ultimo intervento, di Daniele Vittorio Comero, analista politico, ha messo in risalto gli aspetti sistemici del DDL governativo. Le conseguenze dei cinque articoli sono a dir poco enormi e nessuno sembra valutarne l’onerosità, un po’ quello che è accaduto per la riforma costituzionale che ha portato alla riduzione dei parlamentari del 2020. Oggi ci si ritrova con un Senato che non riesce a funzionare con 200 senatori, che sono pochi, a costi invariati. Però lo Stato ha speso una enormità a fare un referendum che dava per certo il risparmio e l’efficienza.
Qui la registrazione degli interventi – da scaricare – e il programma.
Al mattino presto del 6 dicembre, sempre in via del Conservatorio, secondo round per esaminare in chiave storica-politica la ‘Madre di tutte le Riforme’, come è stata definita dalla premier Meloni. Va detto che man mano che si studiano i testi dei disegni di legge, quello governativo S935 e quello renziano S830, si comprende che Giorgia Meloni non stava scherzando affatto con la sua affermazione.
In Statale, il padrone di casa, Stefano Bruno Galli (nella foto in basso a destra, in centro Comero, a sinistra Besostri), professore del Pensiero Politico, già assessore alla Cultura della Regione Lombardia, ha avviato l’esame da un punto di vista storico le riforme costituzionali. Radio Radicale ha registrato tutto l’incontro e pubblicato i singoli interventi a questo link:
Qui le foto, delle slide e il programma.
Dopo l’introduzione storica sull’azione riformatrice delle varie Commissioni Bicamerali dal 1983 fino agli anni duemila, nella ricerca di un consenso parlamentare che portasse a superare il quorum dei 2/3, è stata ricordata la riforma costituzionale del 2001, approvata con maggioranza semplice e referendum, che non ha dato buoni frutti, i cui danni sono ancora oggi in pagamento. Anche l’ultima riforma del 2020, riduzione dei parlamentari, non è da meno e si sta rivelando molto problematica. Il primo relatore, Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, ha completato il quadro storico politico delle riforme elettorali del periodo chiamato II Repubblica auspicando che l’attuale proposta di riforma possa chiudere il ciclo di transizione iniziato con tangentopoli. In collegamento da Roma Stefano Ceccanti, costituzionalista, autore per il PD di molte riforme, ha espresso il desiderio di essere presente al prossimo incontro per poter interagire meglio con i presenti sui tanti dettagli tecnici, poi ha rimarcato che questo genere di iniziativa – la figura del premier rinforzata – era originariamente il cardine del programma dell’Ulivo di prodiana (e di Parisi) memoria del 1996. Dopo aver enumerato alcuni evidenti difetti nel DDL 935, ha venduto la ‘sua riforma’ avanzata nelle scorse settimane in un congresso di una corrente di minoranza del PD. Ha concluso rimarcando che questo modo di procedere della maggioranza parlamentare si è rivelato un po’ rozzo, tutto proiettato al voto del giugno 2024, per le elezioni Europee. Prosegue Felice Besostri, costituzionalista ma soprattutto ricorsista elettorale, vincitore del ricorso in Corte Costituzionale sul ‘porcellum’ prima e sull’Italicum poi, ha rimarcato altre incongruenze e sul meccanismo dell’art. 138, rimarcando che il punto principale è nella legge elettorale i cui effetti distorti potrebbero portare a deformare il consenso nelle Camere facendo saltare i quorum di garanzia per le minoranze. Infine, Daniele V. Comero, presidente dell’ISPG, ha completato il quadro con delle considerazioni ‘sistemiche’ piuttosto rilevanti, che non è possibile ignorare, visto che la riforma implica la scrittura di almeno tre leggi elettorali (elezione diretta premier, Camera e Senato) più la revisione di leggi importanti e delicatissime come la L.400/88, per non parlare della miriade di decreti legislativi, Dpcm e decreti-legge tampone che saranno necessari per far funzionare il sistema istituzionale dopo una tale riforma. Felice Besostri ha concluso, su stimolo di Stefano B. Galli, ha concluso chiedendosi se sia giusto che un Parlamento eletto con una legge elettorale palesemente incostituzionale (ndr.: il Rosatellum sotto accusa per molti aspetti palesemente distorti da un punto di vista costituzionale e sotto ricorsi giudiziari) possa aprire una fase costituente di tale portata. Inutile dire che gli studenti presenti erano sbigottiti, increduli, forse pensavano di essere su ‘scherzi a parte’. Purtroppo, non è stata una finzione, ma una seria analisi giuridica e politologica.
Resoconto sintetico ma completo
LA COSTITUZIONE PIU’ BRUTTA DEL MONDO
Diciamocelo fra noi, tanto nessuno ci sente… Soltanto un comico, oltretutto palesemente schierato, può ritenere la nostra Carta Costituzionale “la più bella del mondo”. Pur ammantata di solennità e incensata a religione di Stato, con i suoi pesi e contrappesi, contraddizioni, troppi diritti e pochi doveri, paure e incertezze, essa può essere considerata fra le peggiori al mondo. Il conforto a questo mio (ma non soltanto mio) parere giunge da Federico Cartelli, padovano, laureato in Scienze Politiche con il suo libello “La Costituzione più brutta del mondo” (ediz. Il Giornale). La Carta, che l’autore definisce ironicamente “Bibbia laica da leggere con timore reverenziale”, mostra in sé le non poche criticità che hanno fino ad oggi pesato sulla fragile stabilità dei governi succedutisi dal 1948, anno della sua nascita.
La prima discussione fu al battesimale della Carta, dove il diavolo della sinistra voleva una Repubblica “fondata sui lavoratori”, sì da rendere già fruibile uno slogan per la lotta di classe, ma l’acqua santa della Democrazia Cristiana riuscì nel compromissivo “fondata sul lavoro”.
E arriviamo all’equivoco posto nel dettame (art. 4) che definisce “il lavoro è un diritto”. Nossignori, il lavoro è un dovere. È un dovere cercarlo e svolgerlo con lealtà, assiduità e competenza. Perché, spacciato un tanto al chilo come diritto, crea l’attesa che uno Stato onnipresente, modello Soviet, ti chiami per affidarti un sacrosanto impiego mentre tu te ne stavi in panciolle sul divano.
Le cose peggiorano con l’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza… “. L’uguaglianza? E che c’entra l’uguaglianza? L’uguaglianza è soltanto davanti alla Legge. Per il resto, grazie a Dio, ognuno ha il diritto di essere diverso. Ma forse sotto sotto c’era l’intento di un sentimento di “egualitarismo” (non giuridico ma sociale) tanto caro alla falce e martello. Il leit motiv di uno Stato statalista che tutto vuole controllare, mediare, verificare, affinché tutto avvenga con “finalità sociali” (art. 41 secondo comma), rivela un clima di linea mediana fra “propaganda comunista ed enunciazione evangelica”, evidenzia il Cartelli. Insomma una Costituzione, prosegue l’autore, che “non è scritta per arginare i poteri dello Stato davanti all’individuo, ma per far sì che l’individuo non disturbi i poteri dello Stato”. Sono inoltre evidenti le fragilità nei poteri di un Presidente della Repubblica puramente rappresentativo e di un Presidente del Consiglio, altrettanto fragile, che viene nominato da un Presidente della Repubblica il quale non necessariamente dà l’incarico a chi è eletto dal popolo, ma eventualmente “ad altra personalità che possa godere della maggioranza parlamentare” (eclatanti i casi Monti, Draghi e Conte, giusto per citare i più recenti). Un presidente della Repubblica che è Capo di poteri forti (Forze Armate e Magistratura), ma che in realtà non comanda nulla.
Mi permetto poi di aggiungere il pasticciaccio fra l’art. 52: “La difesa della Patria è sacro dovere di ogni cittadino” e l’art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…” Quest’ultima, unica citazione dei pacifistoidi, perché non proseguono nel “…consente in condizioni di parità con gli altri Stati le limitazioni di sovranità necessarie… ecc. “.
Costituzione sacra e inviolabile? Macché! I furbetti della magistratura, quando ben pilotati da alcuni partiti desiderosi dei voti elettorali di mamme e figlioli che rifiutano la naja (il mammismo è ben più pericoloso del nonnismo), riescono a farti “sospendere” nel 2004 il servizio militare di Leva che, in un popolo dallo scarso senso civico come quello italiano, andava a misura. E così, con arzigogoli e giri di valzer lessicali, ecco come i legulei di Stato ti inventano che, “sì, il servizio militare è obbligatorio, ma solo se la Patria è in pericolo”. Altrimenti, non è necessario per tutti i cittadini. Bastano le Forze Armate professionali! Quindi la Leva può essere “sospesa”. Infine, basta con i timori delle “disposizioni transitorie XII e XIII”. Ma chi cavolo volete che restauri il Partito Fascista oggi? Al massimo potremmo avere una Destra che cerchi di arginare le scempiaggini della Sinistra, ma nulla di più. E perché tenere ancora l’esilio o privare del voto i discendenti della casa Sabauda? Evidentemente le paure del dopoguerra, in un popolo tremebondo, confuso e con scarsa dignità nazionale, sono dure a morire.
Daniele Carozzi