Tre secoli di dominio straniero (1494-1789) – L’Italia odierna fatica a pensarsi in europeo. E’ più provinciale di quanto lo fosse mezzo millennio addietro? I “Liberi Comuni” si erano spesso valsi di “podestà forestieri”. Seguì l’età delle Signorie: militari e banchieri ascesi a prìncipi. Infine gli “italiani” chiesero ai “barbari” di accorrere a risolvere i loro conflitti. Ne rimasero quasi tutti soggiogati. Precipitare nel baratro è questione di attimi. Risalire la china esige tempi lunghissimi. Richiede un’”idea”, una “leva”: memoria, cultura, coscienza di sé. Perciò giova ricordare i secoli nei quali l’Italia fu “di dolore ostello,… non donna di provincia ma bordello” (Dante dixit).
Irruzione dei “barbari”
Nel 1494, due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, il ventiquattrenne re di Francia, Carlo VIII di Valois (1470-1498), varcò le Alpi, forte di pezzi d’artiglieria. Col sostegno di banchieri italiani e del duca di Milano, Ludovico Sforza “il Moro”, rivendicava il trono di Napoli, già dominato dagli Angioini, d’accordo o con la neutralità benevola del re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, e di Enrico VII d’Inghilterra. Soggiogata Firenze senza colpo ferire, raggiunse Roma, ove fu accolto da papa Alessandro VI Borgia, e proseguì per Napoli, il cui re, Ferdinando II di Aragona, si rifugiò a Ischia. A Napoli chi non arrivò a toccarne le mani o le vesti, baciava la terra ove era passato. La popolazione non dette prova di eroismo. D’altronde nei secoli aveva veduto susseguirsi Goti e Bizantini, Normanni e Svevi, Angioini e Aragonesi. Ogni cambio di dinastia e di dominatori aveva comportato eccidi, rovine, regalie. L’importante era vivere: erbe, pesce e poca carne. Dieta mediterranea. Con gli invasori giunse anche il “morbo gallico”, la sifilide, che per decenni falcidiò le classi elevate, in specie i militari, più corrivi a rapporti vaganti. L’anno seguente una lega di piccoli Stati italici registrò a Fornovo un successo contro Carlo VIII che già si stava ritirando in Francia. Di seguito l’Italia divenne campo di battaglia di armate francesi e imperiali, cioè germaniche e spagnole, tutte comprendenti mercenari svizzeri e italiani, che da secoli erano specialisti della guerra come condottieri o capitani di ventura: dagli Sforza al Gattamelata, dal Carmagnola al Colleoni. Nel 1512 papa Giulio II promosse una lega contro i “barbari”, che però ebbe vita breve perché le mancava un obiettivo. Papi quali i de Medici e i Della Rovere tutelavano gli interessi delle proprie famiglie, oltre che della Chiesa, e miravano all’equilibrio tra le maggiori potenze continentali: una scelta obbligata da quando, nel 1517, Martin Lutero dette vita alla “protesta” contro Roma, presto seguito da Giovanni Calvino, da neoevangelici e dalla chiesa anglicana inventata in Inghilterra da Enrico VIII già celebrato dal papa quale “defensor fidei”. Gli anabattisti che predicavano comunione di beni e di altro furono sterminati. Dagli alberi penzolarono suppliziati e cadaveri a lungo insepolti. Nel 1527 Roma venne saccheggiata. Tre anni dopo a Bologna il papa incoronò imperatore Carlo V d’Asburgo, poi ritratto da Tiziano. La pax venne proposta con il principio “cuius rex, eius et religio”: i sudditi devono professare la fede del loro sovrano. O andarsene. La lacerazione dell’unità cristiana dell’Occidente non si ripercosse in Italia, i cui pochi eretici esularono per scampare all’eliminazione fisica. Papi e poteri civili concordarono nel prevenire le catastrofiche guerre di religione divampanti nell’Europa centrale e in Inghilterra. Con Paolo III Farnese, Paolo IV Carafa, Pio V Ghislieri e Sisto V, asceso al Soglio di Pietro da umili origini nel secolo di pontefici nobili e nepotisti, sino a Clemente VIII (che fece bruciare vivo Giordano Bruno) e a Urbano VIII, che costrinse Galileo Galilei a un’umiliante smentita delle proprie scoperte, la pace religiosa fu propiziata anche da antichi e nuovi Ordini religiosi (domenicani, francescani di varia denominazione, gesuiti, calasanziani o scolopi, filippini…) e da congregazioni femminili. La repubblica di Venezia, che andò orgogliosa dell’indipendenza da Roma, fu anche la città delle trecento chiese.
Pax e servaggio
Con la pace di Cateau-Cambrésis nel 1559 Impero e Spagna da una parte e Francia dall’altra si spartirono l’Europa occidentale. L’Italia rimase nella sfera degli Asburgo di Spagna che ne ebbero il controllo diretto o indiretto, anche attraverso la politica matrimoniale, e con il concorso degli Asburgo d’Austria, che detenevano la corona imperiale e dai quali quindi dipendevano i titoli di sovranità nell’ambito dell’Europa cattolica, perché, come insegnò l’apostolo Paolo, civis romanus, tutto il potere discende da Dio e in terra era il Sacro romano imperatore. Fu il caso del rango di vicario dell’Impero che Filippo II di Spagna cercò invano di strappare ai duchi di Savoia, ai quali rimase anche perché, benché piccolo, il loro Stato, “anfibio”, costituiva un tassello fondamentale degli equilibri in Europa. Timidi passi di minor dipendenza dagli Asburgo vennero tentati dai Medici, creati granduchi di Toscana. Essi dettero due regine alla Francia: Caterina, moglie di Enrico II di Valois, madre di tre sovrani, e Maria, moglie di Enrico IV di Borbone, già campione degli ugonotti. Entrambe influirono negli intrighi e nelle guerre di religione, ma non incisero sulla politica estera della Francia, chiusa tra Spagna e Impero, come si vide quando i suoi re sposarono principesse asburgiche e continuarono le guerre di sempre. Gli interessi di potenza rispondono a ragioni geofisiche e a bisogni generali permanenti della popolazione. Questi si riflettono sull’azione dei sovrani attraverso l’opera di corpi che li perpetuano (diplomatici, militari, alti burocrati, banchieri…) più ancora che con la politica matrimoniale delle case regnanti. Dopo Cateau Cambrésis i pochi Stati italiani indipendenti (repubblica di Venezia, ducato di Savoia, repubblica di Siena, Stato Pontificio) non ebbero spazio per scelte autonome. Lottarono per non soccombere e si logorarono in interminabili guerre per piccole poste. Fu il caso di Carlo Emanuele I di Savoia: mezzo secolo di signoria costellato da continue guerre, alleanze e controalleanze sino alla morte in via Jerusalem a Savigliano, nel Cuneese, con lo Stato invaso da tutti e le piazzeforti strategiche occupate. In Italia non scomparvero né il sogno di minor servitù dal dominio straniero né, meno ancora, il suo nome e l’immagine, ma non vi fiorì l’idea di indipendenza o di unità, dalle Alpi alla Sicilia: concetti totalmente estranei perfino agli intellettuali più acuti. Primo fra tutti Niccolò Machiavelli, segretario della repubblica di Firenze e tra i massimi pensatori politici di tutti i tempi. Nell’ultimo capitolo di Il principe (1513) egli esortò a «pigliare l’Italia e a liberarla dalle mani dei barbari». Gli italiani dovevano fare la loro parte: «Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi.» Come ogni uomo lo è della propria vita, così ogni popolo è signore delle proprie fortune. Scrisse Machiavelli: «A ognuno puzza questo barbaro dominio…»; e chiuse l’esortazione con i versi della canzone Ai Signori d’Italia di Francesco Petrarca: «Virtù contro a furore/ prenderà l’arme; e fia el combatter corto:/ ché l’antico valore/ nelli italici cor non è ancor morto.» Machiavelli, tuttavia, non pensava affatto all’Italia nei termini geopolitici dell’antica Roma né dell’Ottocento o odierni, bensì a un’area circoscritta, quella tosco-padana. Per lui l’Italia era anzitutto Firenze, la civiltà della sua terra. Ebbe anche chiaro che lo Stato della Chiesa sbarrava qualunque prospettiva di unificazione politica. La sua Italia non includeva né il Mezzogiorno né il Piemonte. Venezia e Genova, ricche potenze dagli interessi marittimi più che peninsulari, erano al di fuori del suo orizzonte. Tuttavia, le sue parole riecheggiarono nel tempo. Nel Risorgimento e nel 1943-45 l’incitamento a “liberare l’Italia dai barbari” tornò attuale. Il suo continuatore ideale, Francesco Guicciardini, si rassegnò a tenere per sé le riflessioni più scomode e inattuali. Avrebbe amato Martin Lutero se non fosse stato al servizio del papa, ma quella era la realtà e non vedeva come fosse modificabile.
Mezzo secolo di guerre…
Lo scenario politico dell’Italia rimase immobile sino all’inizio del Settecento, quando cominciarono le guerre per la successione sui troni di Spagna (1700), di Polonia (1734) e dell’Impero (1740): mezzo secolo quasi ininterrotto di conflitti da un capo all’altro d’Europa. Gli interessi dinastici furono importanti ma non determinanti. Le guerre di successione ripresero e continuarono quelle del Cinquecento per l’egemonia sull’Europa e quella dei Trent’anni (1618-1648), ma in un quadro più ampio: sino ai confini dell’Impero di Russia, che assunse caratteri più europei per la determinazione di alcuni zar, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande. L’uso della crudeltà di Stato accelerò la modernizzazione. Di Pietro vennero ricordate le grandi riforme. I suoi metodi spietati, inclusa la punizione mortale inflitta al figlio Alessio, furono messi tra parentesi. Le guerre di successione ebbero particolare rilievo per l’Italia perché mutarono l’assegnazione dei suoi “Stati”, proprio mentre alcune dinastie secolari si stavano estinguendo. Dopo i Gonzaga, scomparsi a metà Seicento, fu il caso dei Farnese e dei Medici. La guerra per il trono di Madrid (1700-1714) segnò in Italia il passaggio dall’egemonia degli Asburgo di Spagna a quelli d’Austria. La guerra di successione polacca (1734-1738) s’intrecciò con la morte di Gastone de Medici e l’assegnazione della Toscana, terra dell’Impero, a Francesco Stefano di Lorena, marito di Maria Teresa d’Asburgo, erede della corona imperiale in forza della Prammatica sanzione che introdusse la successione femminile alla corona di Carlo Magno. Essa ebbe conseguenze importanti in Italia perché dal 1734 i regni di Napoli e Sicilia passarono dagli Asburgo d’Austria ai Borbone di Spagna. Carlo di Borbone (poi III di Spagna), figlio di primo letto di Isabella Farnese, moglie di Filippo V, re di Spagna, combattendo conquistò il Mezzogiorno. Filippo di Borbone divenne duca di Parma e Piacenza, già dei Farnese. I Borbone erano uniti da un “patto di famiglia”. La guerra di successione alla corona dell’Impero (1740-1748) confermò in Italia gli equilibri esistenti ma comportò anni di giochi diplomatici, guerre e battaglie. Lo volessero o meno i suoi abitanti, la penisola rimaneva al centro dei conflitti tra le maggiori potenze. Per mezzo secolo essa fu coinvolta in un travaglio europeo che vide in campo anche la Gran Bretagna e il nuovo astro militare dell’Europa centrale: la Prussia di Federico II, un regno creato nel 1701. Non rimasero spettatori i regni di Svezia, di Polonia e l’impero di Russia, protagonisti di guerre importanti per la sperimentazione di navigli e di leghe metalliche per migliorare la gittata dei cannoni.
…e mezzo di spensieratezza
La guerra di successione spagnola segnò un’altra novità importante per il futuro dell’Italia. Il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, vicario dell’Impero come i suoi avi dal 1416, ottenne il titolo di re di Sicilia (1713) e ne prese possesso. In caso di estinzione dei Borbone di Spagna avrebbe avuto il trono di Madrid. Le “Cortes” spagnole se ne ricordarono centocinquant’anni dopo, quando conferirono il titolo di re ad Amedeo di Savoia, duca d’Aosta (1870). Vittorio Amedeo II non divenne re né in Italia né, meno ancora, dell’Italia. Fu re di un’isola, fuori della terraferma. Cinque anni dopo fu costretto a commutare la Sicilia (che passò agli Asburgo d’Austria) con la Sardegna (già spagnola): un cambio in netta perdita. Però, dopo secoli di dominio e di egemonia straniera, fu il primo sovrano “italiano” ad avere titolo regale (vent’anni dopo seguito dal già citato Carlo III di Borbone, che però ambiva a lasciare Napoli per Madrid). Il suo successore, Carlo Emanuele III, re di Sardegna, brigò in tutte le guerre per ottenere il ducato di Milano e Genova. Non vi arrivò, ma al suo Stato aggiunse Novara, Vigevano, l’Ossola, il Ticino… Di guerra in guerra il “Piemonte” s’ingrandì e rafforzò l’armata e una flotta, piccola ma pugnace: vitale per sopravvivere. Quel mezzo secolo di conflitti evidenziò due assenze: lo Stato pontificio e la repubblica di Venezia. Il primo, benché amplissimo, era militarmente irrilevante. La seconda aveva un confine molto debole con l’Impero ed era ormai sulla difensiva anche sui mari. Rimase estranea ai conflitti di terraferma. La dirigenza dogale dell’epoca investiva nell’edificazione di palazzi, ville e chiese, com’era accaduto nell’Italia centrale e nel Milanese durante il Rinascimento e nel Cinque-Seicento. La “pietrificazione dei capitali” propiziò splendidi monumenti architettonici, le arti figurative, il teatro, la letteratura. Nel regno sabaudo il piacere della vita fu meno coltivato, ma lo strumento militare si rivelò essenziale per la sopravvivenza dello Stato, mentre la repubblica di Venezia si avviò al crepuscolo e finì per perdere anche scrittori e avventurieri, come Giacomo Casanova, perpetuamente vagante in Europa, e Carlo Goldoni che si trasferì a Parigi e vi scrisse in francese le sue memorie. L’Italia non venne coinvolta nella Guerra dei Sette Anni (1756-63) che registrò importanti battaglie nell’Europa centrale. Federico II di Prussia abbandonò due volte Berlino al nemico per preparare la riscossa e infine risultò vincitore grazie al sostegno finanziario di Londra. Quel conflitto, breve ma micidiale, può essere considerato la Prima guerra mondiale, perché segnò la vittoria inglese sui francesi negli spazi extraeuropei: dall’India (ove la Francia ridusse il suo dominio a poche “teste di ponte”) all’immenso spazio tra il Canada e la Louisiana. Gli inglesi presero la valle dell’Ohio e si impadronirono del Canada. Svanì il sogno di Enrico IV e del cardinale Richelieu di creare un impero coloniale francese nell’America settentrionale. Esso avrebbe mutato per secoli la storia dell’Europa e delle sue colonie. Ci riprovò Napoleone III, che propugnò la sfortunata spedizione di Massimiliano d’Asburgo e il suo effimero impero del Messico. Nella seconda metà del Settecento l’Italia visse un quarantennio di pace. In tutti gli Stati furono avviate imponenti opere di interesse pubblico, come l’Albergo dei Poveri a Napoli. All’epoca lo erano anche le dimore dei sovrani, come la splendida reggia di Caserta, non solo perché la loro edificazione e arredo incentivavano manifatture, artigiani e artisti ma anche per il prestigio che ne derivava. Le grandi opere riportarono alle origini del Rinascimento fiorito nel Tre-Cinquecento. Questo era stato continuato come manierismo, barocco e rococò: tutte varianti di un unico ceppo. Ora l’Italia risorgeva, tornava a confrontarsi con le sue radici: Roma. Lo scrisse Saverio Bettinelli in “Il risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e nei costumi dopo il Mille” pubblicato nel 1776. Due anni prima la Compagnia di Gesù, di cui era membro, era stata sciolta da papa Ganganelli (Clemente XIV). I gesuiti erano accusati di complottare ai danni del potere politico. L’imputazione non era nuova, ma fino a metà Settecento era stata usata contro di loro da anglicani, luterani e calvinisti. Ora dilagava anche in paesi cattolici, dal Portogallo alla Spagna, dalla Francia al Regno di Napoli. I gesuiti erano tacciati di oscurantismo e di opporsi all’illuminismo, di ostacolare l’avvento di pragmatismo ed empirismo, di imporre il fanatismo bigotto contro la ragione. In realtà nelle Americhe si opponevano allo sfruttamento brutale delle popolazioni indigene (fu il caso delle “riduzioni” nel Guaranì, elogiate dallo storico Ludovico Antonio Muratori) e alla conciliazione tra fede e scienza. Bettinelli viaggiò all’estero, conobbe anche Voltaire, razionalista, campione dell’incredulità e autore del licenzioso poema “La Pucelle d’Orléans”, e scrisse quanto era evidente: senza rullio di tamburi di guerra l’Italia aveva compiuto e stava compiendo grandi progressi in tutti i campi. “Risorgimento” significava ritorno di una vita già vissuta ma al tempo stesso nuova. Il passato venne fatto rivivere alla luce della novella storia. Fu quanto avvenne lungo la Penisola. Napoli e Milano gareggiavano nella promozione di ricerche, invenzioni, diffusione di idee innovative. Il duca di Parma si assicurò l’opera di Giambattista Bodoni, re dei tipografi e tipografo dei re. Malgrado vincoli e ostacoli a Parma vennero pubblicate opere condannate dalla Chiesa cattolica, come l’“Enciclopedia” di Diderot e d’Alembert. Nella seconda metà del Settecento il ritorno alle origini si manifestò nell’audacia del neoclassicismo, la cui via era stata tracciata da Antonio Palladio un secolo prima. Rimasto sottotraccia in Italia, dominata da barocco e rococò, il palladismo, cioè il ritorno al classicismo puro, aveva trionfato in Inghilterra e da lì passò nella Nuova Inghilterra, i cui edifici più celebri si ispirarono al suo stile. La città di Washington ne è l’esempio più noto. In Italia il neoclassicismo si affermò per sentieri impervi e suscitò allarme e sospetti. L’imitazione di Roma sapeva di neopaganesimo, tanto più che dilagarono l’egittomania, precursore dell’egittologia, la ricerca di sapere occulto e il gusto per l’Oriente proprio quando i gesuiti erano stati combattuti ed espulsi da Cina e Giappone. La suggestione delle Piramidi, di Iside ed Osiride si diffuse prima che i geroglifici venissero decifrati e si sommò all’impatto emotivo della scoperta di Pompei e di Ercolano, delle rovine di Paestum, della ricerca di una sapienza arcana che coniugava razionalismo e alchimia, scienze e magia. Grazie a decenni di pace e alla circolazione di beni, nei decenni successivi alla pace di Aquisgrana (1748) chi ne aveva mezzi e possibilità in Italia visse un’epoca felice. Non percepì che la storia stava bussando da oltralpe. La Rivoluzione del 1789 e le sue ripercussioni all’interno della Francia non vennero avvertite all’estero, massime in Italia. I più pensarono che la terra di Ugo Capeto stesse uscendo di scena e l’Europa sarebbe vissuta più in pace di prima. Si sbagliavano…
Aldo A. Mola