Alcune riflessioni sul ddl “Salva Milano” approvato dalla Camera ora al Senato
Si è riacceso il dibattito sul ‘Salva Milano’, mi permetto qualche notazione. Perché tanto interesse? Costruire in classe ‘A’ di risparmio energetico (imposta giustamente dalla legge) nuovi edifici (o demo-ricostruire) costa circa 2.000 euro al metro quadro, somma cui vanno aggiunti i costi di acquisto del terreno, le parcelle professionali e gli oneri comunali, si arriva facilmente a 3.000 euro/mq. Questo significa che – rispetto ai valori correnti di mercato, che in provincia e nelle periferie raramente superano i 2.000 euro/mq – solo nelle città, anzi solo in alcune zone delle città – il capitale di rischio necessario per l’operazione immobiliare trova adeguata remunerazione, nelle zone quindi dove si possano vendere gli appartamenti almeno a 4.000 euro/mq, tenendo presente anche i costi finanziari (i mutui viaggiano al tasso del 6%) ed il rischio di invenduto, tenendo anche presente la denatalità che si incrementa ogni anno e quindi la minor domanda di abitazioni. La cifra di 4.000 euro/mq significa un margine di utile del 25%, da cui poi detrarre le tasse, sono certamente finiti i tempi d’oro in cui si costruiva vendendo sulla carta e si raddoppiavano ancora prima di partire i capitali, anzi con le caparre si finanziava il cantiere, il rischio d’impresa non è quindi modesto. Si è giunti a 2.000 euro/mq sia per la folle bolla del 110% (che ha gonfiato i prezzi, che è costato moltissimo ai contribuenti sulla finanza generale e che ha riguardato solo il 3% degli edifici italiani, dati Banca d’Italia, quindi una operazione solo in parte controbilanciata dall’emersione del nero e dal maggiore gettito IVA e per imposte generali), sia per l’incremento dei costi delle materie post pandemia Covid e post-guerra in Ucraina. Questo significa che nel 95% del territorio del nord Italia – nella provincia profonda, ma anche in buona parte delle città – le iniziative immobiliari semplicemente non si fanno più, infatti, se girate per il nord Italia non vedete o vedete raramente gru e ponteggi. Gli unici cantieri aperti, a parte qualche piccolo intervento familiare, sono quelli del 110%, laddove non siano finiti in cause contro qualche general contractor truffaldino che ha incassato le somme ed è poi sparito. Oppure quelli delle grandi città, nelle zone dove il limite di 4.000 euro/mq di prezzo di vendita può essere raggiunto. E dove quindi la pressione degli investitori immobiliari si è concentrata.
In questo scenario – di cui nessuno parla, stranamente, visto che è buona parte del problema – si verifica l’intervento della Procura della Repubblica di Milano che sequestra alcuni cantieri in città e che interrompe una prassi decennale inaugurata da alcune circolari della giunta Pisapia. Cattivoni questi magistrati della Procura? No, semplicemente applicano un indirizzo interpretativo consolidato della Cassazione Penale in tema di reati edilizi, che non condivide alcuni orientamenti più aperturisti della giustizia amministrativa sui due temi centrali, ossia l’obbligo di piano attuativo per interventi sopra i 25 metri e con indice maggiore di 3 mc/mq (obbligo sancito dall’art. 41 quinquies della L. 1150/1942) e la definizione del concetto di ristrutturazione edilizia. Ma in concreto, di cosa stiamo parlando?
Primo tema, l’obbligo di piano attuativo
Una nozione centrale nel diritto urbanistico è quella di carico urbanistico, ossia se un intervento edilizio – quale che esso sia, nuova costruzione o ristrutturazione, anche secondo la giurisprudenza amministrativa poco cambia – crea una maggiore presenza antropica (cioè rende ivi presenti nuovi abitanti che prima non c’erano), occorre adeguare il territorio ed aumentare i relativi servizi pubblici, come parcheggi, verde etc.., i c.d. famosi standards urbanistici introdotti dalla L. 765/1967 c.d. legge Ponte e dal Decreto Ministeriale 1444/1968, nonché occorre raccordare il nuovo intervento al tessuto edificato con nuove urbanizzazioni (strade, fognature, reti di servizio). Questo perché altrimenti si verifica il caos urbanistico, ossia – solo per ricordare la storia, che è sempre magistra vitae – il caso della frana di Agrigento del 1966, dove un intiero quartiere residenziale di orrendi palazzoni realizzato senza verde e senza servizi ebbe a franare – per fortuna senza morti e feriti – e sull’onda dell’emozione di quel tragico evento il ministro Giacomo Mancini, il leone di Cosenza, riuscì a far approvare la c.d. legge Ponte ed il DM 02.04.1968, che in buona sostanza hanno consentito di creare un minimo di ordinata urbanistica moderna nel nostro paese, dopo la fase degli scempi e dei quartieri selvaggi degli anni ‘60.
Quindi, mi pare poco razionale (e qui non c’entra nulla la politica, destra o sinistra che siano, è una questione di corretta amministrazione dei pubblico interesse urbanistico per poter trasformare in modo vivibile la città) sostenere che – per incentivare la rigenerazione edilizia e recuperare l’edificato abbandonato o sottoutilizzato, operazione peraltro meritoria ed opportuna – si possa prendere un capannone produttivo abbandonato posto nella periferia e trasformarlo in un grattacielo con 100 appartamenti senza piano attuativo, ossia senza uno strumento che conforma il giusto diritto legittimo del costruttore consentendone l’esercizio ma allo stesso tempo imponendo con la convenzione urbanistica di adeguare gli standards di cui sopra e di dotare la città dei nuovi servizi che il maggior carico urbanistico comporta in quella zona.
Se il tema è quello della difficoltà di approvare un piano attuativo con doppia delibera di giunta comunale nelle città perché la giunta comunale è già carica di atti e i tempi amministrativi si allungano, si valuti anche la possibilità nei casi meno complessi ex art. 28bis della L.1150/1942 di approvare permessi edilizi convenzionati, che in pratica costituiscono mini-piani attuativi ma sempre con una convenzione sempre guidati dal faro del c.d. maggior carico urbanistico prodotto dall’intervento, che la Cassazione Penale giustamente considera il discrimine su cui non è possibile transigere per non far arretrare l’urbanistica italiana al periodo ante 1967 e che una volta accertato in concreto comporta l’obbligo di cedere i servizi pubblici necessari al contesto aggravato di nuovo carico urbanistico.
Il ddl all’esame del Senato con il seguente titolo: “Disposizioni di interpretazione autentica in materia urbanistica ed edilizia”
Far passare invece il concetto – addirittura con una norma meramente interpretativa, come se dal 1967 ad oggi tutti avessero compreso male e fosse necessario spiegarlo ! – per cui la rigenerazione urbana consente di saltare l’obbligo di convenzionamento urbanistico per interventi che generano nuovo carico urbanistico, in tale modo consentendo la creazione di nuovi mini-quartieri residenziali senza verde e senza servizi pubblici ed anche con il versamento di oneri urbanizzativi ridotti (quelli di un permesso semplice) è una operazione non molto lungimirante e che – comunque – non verrà accettata né dal giudice penale, né dal giudice amministrativo, né dal giudice civile, che la disapplicheranno od anche che chiederanno l’intervento della Corte Costituzionale, con esito abbastanza scontato, visti i precedenti giurisprudenziali ben noti, come hanno segnalato anche molti studiosi della materia.
Ove poi – per quanto detto prima – si evidenzia che oggi questi interventi riguardano solo i tessuti edilizi cittadini dove il mercato ancora consente prezzi di acquisto molto alti e superiori ai 4.000 euro/mq non è chi non veda anche la paradossale ingiustizia di fondo della forzata operazione interpretativa, per cui – senza voler demonizzare il profitto, che anzi costituisce il motore necessario di queste iniziative – si arriva ad un profitto totale dove il prezzo del disagio che il nuovo intervento edilizio impone sul territorio nemmeno in parte viene pagato alla collettività, quindi diremmo una scelta amministrativa che sembra quantomeno discutibile.
Quindi su questo versante sembra un dibattito surreale su una norma forse pericolosa ma anche abbastanza inutile, è facile immaginare che non verrà applicata – anche nel timore dei funzionari comunali di prendersi responsabilità eccessive rispetto a temi già abbastanza evidenti, con il rischio poi di finire davanti alla Corte dei Conti per danno erariale, sotto forma di atti che consentano agli operatori immobiliari sconti non possibili – o verrà annullata dalla Corte Costituzionale. Ma anche il secondo punto del dibattito, la definizione di ristrutturazione edilizia, va un po’ chiarito. È vero che la giurisprudenza amministrativa nel tempo ha allargato questo concetto, consentendo di qualificare come ristrutturazione edilizia anche l’intervento in cui si crei un edificio in parte diverso e posto su un suolo parzialmente diverso da quello dove sorgeva l’edificio demolito.
Una parziale identità tra il costruito e quanto poi ricostruito dopo la trasformazione
La Cassazione penale ha mostrato meno adesione a questo indirizzo, chiedendo almeno una parziale identità tra il costruito e quanto poi ricostruito dopo la trasformazione. Il buon senso dice che è difficile sostenere che demolito un capannone abbandonato la costruzione di una torre residenziale con 100 appartamenti posta a 40/60 metri di distanza dal sedime originario sia qualificabile come ristrutturazione edilizia del vecchio capannone, è una nuova costruzione a tutti gli effetti, sia per la diversa posizione sia per il maggior carico urbanistico che crea. Credo si possa tentare una sintesi con una nuova norma di legge, non con una inutile norma interpretativa.
Vanno definite dal legislatore tre categorie di intervento:
- la nuova costruzione, quando si prende un suolo vergine e rispettando le previsioni del piano urbanistico generale si crea un nuovo volume con nuovo carico urbanistico, pagando tutti gli oneri e cedendo tutti gli standards necessari
- la ricostruzione innovativa, quanto si prende un edificio esistente lo si demolisce e si crea al suo posto sempre nel rispetto delle previsioni del piano urbanistico generale un nuovo volume – anche su sedime diverso ma sempre nel lotto – con nuovo carico urbanistico, in questo caso serve il piano attuativo od il permesso edilizio convenzionato, per cui vanno ceduti in toto gli standards parametrati al maggior carico urbanistico e vanno pagati gli oneri edilizi, però quest’ultimi in misura ridotta, in modo da incentivare la rigenerazione urbana, che è obiettivo nobile ed opportuno di interesse generale
- la ristrutturazione edilizia, che riguarda invece i casi in cui si tratti di parziali modifiche dell’edificio che non creano incremento del carico urbanistico, soggetta a permesso semplice e con oneri nulli o ridotti
Questa necessità di una nuova norma di legge si sposa – poi – anche con la necessità di un nuovo testo unico dell’urbanistica che mandi in soffitta la vecchia normativa legge 1150/1942, affermando – per esempio, giusto per stare in tema – che spetti ai piani urbanistici generali delle città prevedere i casi in cui sia necessario il piano attuativo o il permesso convenzionato, senza vincoli obbligatori di legge come quello dei 25 metri di altezza dettato dal citato art. 41 quinquies della legge citata, ma sempre ragionando sul principio guida del c.d. maggior carico urbanistico. Insomma, una visione più ampia e più meditata, anche più realistica e senza arretramenti tafazziani rispetto ai principi che dal 1967 in poi hanno consentito di migliorare le nostre città e renderle più moderne e vivibili. Mi piace poco poi l’avverbio ‘Salva’ che connota l’ultima legislazione in materia, mi sembra un po’ roba da protezione civile … e qualcuno potrebbe anche tirare fuori qualche cornetto di corallo … non servono zattere legislative su cui far atterrare i naufraghi, incauti o vittime incolpevoli che fossero, ma destinate a loro volta a colare a picco rapidamente e creare solo caos aggiuntivo anche per tutto il territorio nazionale, dove – ad onor del vero – naufraghi non vi sono, per nostra fortuna e dove per rilanciare l’edilizia servirebbero ben altre iniziative legislative del Parlamento.
Occorrono non zattere, quindi, ma nuovi vascelli fatti con legname robusto e consolidato con cui poter affrontare senza timore il mare aperto.
Umberto Grella
avvocato amministrativista
Testo del ddl s1309 in discussione al Senato:
DISEGNO DI LEGGE S1309
“Disposizioni di interpretazione autentica in materia urbanistica ed edilizia”
Art. 1.
- Il primo comma dell’articolo 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, si interpreta nel senso che l’approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei casi di edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati, di sostituzione, previa demolizione, di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati e di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, che determinino la creazione di altezze e volumi eccedenti i limiti massimi previsti dall’articolo 41-quinquies, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, ferma restando l’osservanza della normativa tecnica per le costruzioni. Il numero 2) dell’articolo 8 del decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968, si interpreta nel senso che l’approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei casi di edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati, di sostituzione, previa demolizione, di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati e di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, che determinino la creazione di altezze eccedenti l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, ove ciò non contrasti con un interesse pubblico concreto e attuale al rispetto dei predetti limiti di altezza, accertato dall’amministrazione competente con provvedimento motivato, o comunque ove ciò sia previsto dagli strumenti urbanistici, e fermi restando l’osservanza della normativa tecnica per le costruzioni nonché il rispetto dei limiti di densità fondiaria di cui all’articolo 7 del medesimo decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444.
- Nei casi di cui al comma 1, restano fermi il rispetto dei parametri di adeguatezza delle dotazioni territoriali e dei parametri urbanistici, sulla base della legislazione regionale e degli strumenti urbanistici comunali, nonché il rispetto, limitatamente agli interventi di nuova costruzione, della distanza minima tra fabbricati, derogabile tra fabbricati inseriti all’interno di piani attuativi e di ambiti con previsioni planivolumetriche oggetto di convenzionamento unitario.
- A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, la lettera d) del comma 1 dell’articolo 3 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, fermo restando quanto disposto dal sesto periodo della medesima lettera d), si interpreta nel senso che rientrano tra gli interventi di ristrutturazione edilizia gli interventi di totale o parziale demolizione e ricostruzione che portino alla realizzazione, all’interno del medesimo lotto di intervento, di organismi edilizi che presentino sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche, funzionali e tipologiche anche integralmente differenti da quelli originari, purché rispettino le procedure abilitative e il vincolo volumetrico previsti dalla legislazione regionale o dagli strumenti urbanistici comunali.
- Nei casi di cui al comma 3, resta fermo il rispetto dei parametri di adeguatezza delle dotazioni territoriali e dei parametri urbanistici sulla base della legislazione regionale e degli strumenti urbanistici comunali.
- Sono fatti salvi gli effetti dei provvedimenti attinenti ai procedimenti di cui ai commi 1 e 3 non più impugnabili ovvero confermati in via definitiva in sede giurisdizionale alla data di entrata in vigore della presente legge. Si applica, in ogni caso, la disposizione del comma 8.
- L’applicazione delle disposizioni del presente articolo non può comportare limitazione dei diritti dei terzi.
- Resta ferma la disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
- Al fine di escludere l’insorgenza di nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, le disposizioni dell’articolo 2, comma 2, lettera c), secondo periodo, del decreto-legge 16 febbraio 2023, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 aprile 2023, n. 38, in relazione alle costruzioni rientranti nella disciplina dell’articolo 41-quinquies, primo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, si applicano esclusivamente alle spese sostenute per interventi comportanti la demolizione e la ricostruzione di edifici per i quali risultino approvati, entro il 17 febbraio 2023, nelle forme previste dalla disciplina urbanistica applicabile, anche di livello regionale, i relativi piani attuativi, anche mediante piani di lottizzazione convenzionata, e risulti comprovata l’avvenuta presentazione, entro la data del 29 dicembre 2023, della richiesta del titolo abilitativo legittimante all’esecuzione dei lavori. Nei casi di cui al presente comma non si applica l’articolo 2-bis del decreto-legge 16 febbraio 2023, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 aprile 2023, n. 38.
- Le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con i rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione.
Testo del Dossier allegato al ddl1309:
Parlamento Italiano – Disegno di legge S. 1309 – 19ª Legislatura
(estratto)
Contenuto
La proposta di legge in esame, trasmessa dalla Camera dei deputati in data 22 novembre 2024, si compone di un unico articolo e reca disposizioni (riformulate quali norme di interpretazione autentica durante l’esame alla Camera dei deputati) finalizzate (come sottolineato dalla relazione illustrativa) a risolvere il contrasto, generatosi nella giurisprudenza amministrativa, circa la corretta interpretazione dell’articolo 41 quinquies, primo comma, della Legge urbanistica (L. 1150/1942) che individua i limiti di volumi e altezze delle costruzioni nell’ambito del territorio comunale. La medesima relazione richiama sia l’orientamento restrittivo, più risalente, implicante il divieto di realizzazione di interventi eccedenti i citati limiti quantitativi in assenza del piano attuativo esteso all’intera zona, anche nelle ipotesi di ricostruzione di fabbricati da eseguire in zone già urbanizzate (Consiglio di Stato, sentenza n. 369/1977), sia l’orientamento più recente ed espansivo, che interpreta la disposizione nel senso di prevedere l’approvazione del piano particolareggiato o di lottizzazione solo in presenza di aree non urbanizzate, che quindi richiedono una pianificazione attuativa finalizzata a un loro armonico e ordinato sviluppo (da ultimo, Consiglio di Stato n. 7799/2003, con riferimento ai “lotti interclusi” in aree completamente urbanizzate, in continuità con la circolare del Ministero per i lavori pubblici 1501/1969). Sempre nella relazione illustrativa si sottolinea che” la vetustà e l’inadeguatezza delle disposizioni legislative in materia urbanistica sono ormai evidenti alla luce delle nuove competenze in materia assunte dalle regioni e dagli enti territoriali, determinando, nel tempo, la necessità di un chiarimento interpretativo che tenga conto dell’evoluzione normativa in tale materia”, nonché in considerazione del fatto che la legislazione nazionale concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia è mutata più volte nel tempo.
Norme di interpretazione autentica in materia di superamento dei limiti di altezza e volumetrici (comma 1)
Il comma 1 detta norme di interpretazione autentica di due disposizioni normative tra loro collegate, al fine di consentire il superamento dei limiti di altezza e volumetrici per interventi edilizi effettuati anche in assenza di piani particolareggiati o di lottizzazione convenzionata. art. 41 Nel dettaglio, il primo periodo del comma 1 dispone che l’art. 41-quinquies, primo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 si interpreta nel senso che l’approvazione preventiva di un piano particolareggiato o di lottizzazione convenzionata non è obbligatoria nei seguenti casi, qualora gli interventi determinino la creazione di altezze e volumi eccedenti i limiti massimi previsti dal medesimo art. 41-quinquies, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, ferma restando l’osservanza della normativa tecnica delle costruzioni: edificazione di nuovi immobili su singoli lotti situati in ambiti edificati e urbanizzati; sostituzione, previa demolizione, di edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati; interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati.
Come non condividere le argomentazioni espresse. Purtroppo siamo in un periodo di “decadenza” , a tutti i livelli, i pochi che si salvano vengono sacrificati, perché essendo “menti pensanti” creano problemi.
Non sento commenti chiari e concreti su temi di responsabilità sia da destra che da sinistra: chi prende decisioni e fallisce dovrebbe pagare. Un concetto semplice. Inoltre, nessuno solleva questioni economiche in merito a bollette di gas, luce e acqua, mentre le multinazionali continuano a dettare le regole.
Sul piano educativo, manca un discorso serio sugli aspetti etici da trasmettere ai giovani: insegnare i valori di comportamento etico-sociale con esempi concreti, promuovendo la pratica del “fare” prima di chiedere di fare. Parliamo tanto di digitalizzazione e innovazione, ma oggi nessun comune sa davvero quanto vale il proprio patrimonio. Gli inventari sono obsoleti, disorganizzati e non catalogati; non si ha chiara la situazione della manutenzione né dei consumi energetici. Come possiamo valorizzare il patrimonio pubblico senza conoscerne le caratteristiche quantitative, qualitative ed economiche? Mi risulta che il PNRR finanziasse proprio questi progetti.
Basterebbe creare un software su piattaforma regionale o nazionale, come il catasto, di cui possano usufruire i comuni, evitando la frammentazione in oltre 8.000 SIT informatici. Una razionalizzazione in standard unici consentirebbe di risparmiare risorse, che potrebbero essere investite nella formazione di tecnici, funzionari e dirigenti pubblici. Inoltre, eviterebbe che, in caso di mobilità, questi debbano imparare un nuovo sistema ogni volta, visto che ogni amministrazione utilizza un software diverso. La catalogazione dei beni pubblici, poi, creerebbe occupazione per molti tecnici e potrebbe essere svolta tramite convenzioni con gli albi professionali, creando nuove figure professionali quali BIM Manager, BIM Coordinator e BIM Specialist, molto richieste sia nel settore pubblico sia in quello privato (il BIM è già obbligatorio per le gare pubbliche).
Con nuovi modelli economici, come il Partenariato Pubblico-Privato (PPP), le amministrazioni potrebbero generare rendite, valorizzando aspetti ambientali, paesaggistici e storici. Un’opzione potrebbe essere quella di affidare ai privati, sotto concessione pubblica con vincoli chiari, la gestione di certi beni, garantendo ritorni economici per la collettività.Per fare tutto questo, è fondamentale investire nella formazione di profili professionali avanzati, premiando merito e risultati, anche nel settore pubblico. Chi è bravo deve guadagnare di più, soprattutto se porta risultati concreti. Tenuto conto che l’edilizia continua a essere un volano per l’economia, attraverso incentivi al mercato, ci si domanda:
Oltre alla legge “SALVA CASA”, perché non sono state riconfermate anche le normative di agevolazione per la rigenerazione e il recupero dei fabbricati dismessi e diruti?
In particolare, si chiede di sostenere la rigenerazione urbana, concedendo incentivi per l’acquisto, la demolizione e la ricostruzione di interi edifici (o per la loro ristrutturazione incisiva).
Un altro punto rilevante riguarda la conferma dell’articolo 7 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 2019, n. 58. Per comodità di lettura, si riportano di seguito i riferimenti della norma: L’articolo 7 del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, prevede un regime di tassazione agevolata temporanea (fino al 31 dicembre 2021) per incentivare gli interventi di ristrutturazione su edifici datati, con l’obiettivo di migliorare la classe energetica e rispettare le normative antisismiche. Tale regime consiste nell’applicazione di imposte fisse sull’imposta di registro, e sulle imposte ipotecaria e catastale, sui trasferimenti di tali beni.
Appare contraddittorio parlare di semplificazione, innovazione, rigenerazione e riqualificazione di contesti urbani dismessi e, allo stesso tempo, limitare temporalmente le agevolazioni e gli incentivi ad essi associati.
La finalità di tali interventi dovrebbe essere:
1. Semplificare le procedure edilizie e urbanistiche per agevolare la realizzazione di progetti di rigenerazione.
2. Applicare incentivi fiscali ed energetici che stimolino l’efficienza e la sostenibilità degli interventi.
3. Rinegoziare, in accordo con le autorità competenti, i vincoli imposti dalla Soprintendenza, ove presenti, per consentire una maggiore flessibilità nelle operazioni di recupero.
Questi interventi, se correttamente implementati, permetterebbero agli attuatori, in stretta collaborazione con gli uffici comunali e la Soprintendenza, di rigenerare le aree degradate e dismesse. Tale processo avrebbe ricadute positive non solo sotto l’aspetto socio-economico, ma anche nella valorizzazione dei beni pubblici e privati circostanti.
Sarebbe auspicabile che la politica prendesse in seria considerazione questa finalità di programmazione, per promuovere un approccio più coerente e strategico alla rigenerazione urbana.
Speriamo!!!!