Nella storia d’Italia la data del 18 aprile ha rappresentato per ben due volte l’occasione per segnare una svolta epocale: nella prima occasione, quella del 1948 quando si svolsero le elezioni per la Prima Legislatura Repubblicana con il successo della Democrazia Cristiana e la sconfitta del Fronte Popolare. In un’occasione successiva, quella del 1993, le urne furono aperte per un referendum (insieme ad altri sette) che interessava la legge elettorale del Senato. La riforma elettorale era considerata allora, semplicisticamente, la chiave di volta per modificare l’intero assetto del sistema politico scosso dalla caduta del muro di Berlino, dalla stipula del trattato di Maastricht e da Tangentopoli con l’esito della sparizione dei grandi partiti storici a integrazione di massa. In quel momento c’era chi, come il movimento capeggiato da Mario Segni oppure parte del PDS proclamava che l’adozione di un sistema elettorale maggioritario avrebbe semplificato il sistema, resa stabile la governabilità, fatta giustizia della corruzione, reso trasparente il rapporto tra eletti ed elettori. Mai promesse da marinaio come quelle enunciate all’epoca hanno causato una vera e propria distorsione nella capacità pubblica di disporre di una corretta visione politica. L’esito referendario del 18 aprile 1993 significò un punto di vera e propria battuta d’arresto per lo sviluppo democratico del nostro Paese, considerato che dalle elezioni del 1994 in avanti il corpo elettorale non ha mai più avuto la possibilità concreta di scegliere i propri rappresentanti.
Si è passati da un sistema misto di collegi uninominali e liste proporzionali bloccate a un sistema proporzionale interamente formato da liste bloccate e, dopo aver tentato addirittura di proporre un sistema che avrebbe fornito la maggioranza assoluta con liste bloccate senza alcuna soglia da raggiungere sul modello della legge fascista Acerbo del 1924, ad un altro sistema misto con collegi uninominali, divieto di voto disgiunto e liste ancora bloccate (N.d.R.: dall’Italicum di Renzi al Rosatellum di Gentiloni). In due occasioni la Corte costituzionale su iniziativa di un pool di avvocati coordinati dall’indimenticabile Felice Besostri e nell’indifferenza totale delle forze politiche dichiarò illegittime le formule elettorali (l’una in uso e l’altra in divenire). Un esito quello dettato dalla Corte assolutamente respinto dagli attori istituzionali del sistema politico che hanno continuato a pensare alla stabilizzazione dei propri “cerchi magici” e al mantenimento di quote di potere anziché riflettere sui temi della partecipazione, del rapporto tra governabilità e rappresentanza e sul mutamento delle forme di intermediazione politica come sarebbe stato e sarebbe (urgentemente) necessario.
Quasi contemporaneamente fu adottato il sistema dell’elezione diretta per i Comuni e successivamente per le Regioni: altri due temi sui quali sarebbe opportuno riformulare qualche valutazione[1] di merito. Il veicolo della personalizzazione della politica per ottenere la stabilità di governo si è rivelato, infatti, irto di complesse difficoltà dal punto di vista della piena espressione della volontà democratica e portato, soprattutto nel caso delle Regioni, ad un vero e proprio spostamento d’asse nella natura istituzionale e nelle finalità legislative (Regioni) e giuridico – amministrative degli enti. Intanto, il sistema politico italiano sta ancora trasformandosi cercando un assetto più o meno stabile nella sua quasi infinita transizione. Dopo una concitata fase di crescita esponenziale dell’astensionismo e di esagerata volatilità elettorale dovuta all’impulso populista che ha attraversato il sistema dei comitati elettorali (difficile definirli come partiti) sta prendendo quota una inedita versione del bipolarismo. Non è più il tempo di “centro – destra” e “centro – sinistra”. L’acuirsi delle grandi contraddizioni in un quadro generale di inasprimento delle contrapposizioni sociali e di difficoltà nell’individuare soggetti di riconoscimento politico, ha spinto verso una radicalità che, da una parte, sta originando un fenomeno emergente di formazione di una destra compiutamente conservatrice tendenzialmente egemone sulle forze populiste sia in senso federale, sia in senso europeista “moderato”; dall’altro canto si rileva una spinta in direzione di una sinistra capace di rappresentare il moderno intreccio tra le fratture sociali post-materialiste e quelle che convergono sugli assi tradizionali di riferimento della sinistra storica. L’interrogativo rimane quello del tipo di sistema istituzionale[2] che può meglio accogliere questa tensione in atto.
Franco Astengo
[1] L’elettorato sembra ormai arreso all’idea del prevalere di una logica di “voto di scambio” di massa elargito sulla spinta di una crescente sfiducia nelle istituzioni.
[2] La difesa della democrazia repubblicana imperniata sulla forma di governo parlamentare e il rifiuto di un ulteriore inoltrarsi nella personalizzazione delle figure monocratiche, appare ancora come possibile punto di riferimento per riuscire ad aggregare l’opposizione costituzionale allo scopo di elaborare una proposta che, in questo quadro così complicato, riequilibri governabilità e rappresentanza senza prestare il fianco ad avventure assimilabili a quelle che, in altri Paesi, hanno portato all’esito delle cosiddette “democrature”.