Cavalcare la tigre, ma sarà mansueta?
La rivendicazione della Groenlandia, antico dominio dalla minuscola Danimarca, da parte di Donald Trump non è una sortita fuori le righe, ma la profezia della carta politica del pianeta che verrà disegnata entro qualche decennio. È la Storia nel suo continuo divenire. I confini di gran parte dell’Africa e del Vicino e Medio Oriente, a parte l’Algeria che la Francia iniziò a sottomettere con metodi si orrenda brutalità sin dal 1830, sono stati tracciati tra il 1880 e le paci pattuite tra i vincitori e dettate ai vinti dopo la Prima guerra mondiale. Quei confini erano così artificiali che nessuno si scandalizza se la ora Siria sia deflagrata e il suo futuro rimanga assai oscuro. Parimenti precari sono quelli dell’America centro-meridionale, nata dalle “rivoluzioni” che dal 1812 traghettarono la Nueva España sotto l’egemonia euro-statunitense.
Tecnologie fuori controllo
Se quanto avviene e avverrà negli anni venturi rimane dunque incerto e fonte di fondate preoccupazioni, altrettanto va detto del controllo militare dell’informazione tramite i satelliti spaziali, “tecnologie fuori controllo”, ovvero poteri che vanno al di là di quelli dei governi della quasi totalità degli Stati. Questi si dichiarano o rivendicano o si ripromettono di tornare pienamente sovrani o illudono i loro cittadini di esserlo, ma lo sono sempre meno o non lo sono affatto perché le decisioni supreme su di essi sono in mano altrui, di “potenze” senza territorio ma di gran lunga più forti di Stati vastissimi e bisognosi di tutto, a cominciare dalle “informazioni”. Un tempo vi erano “governi in esilio” contrapposti a quelli in carica e votati dai loro cittadini o sudditi (ve ne sono ancora e altri si aggiungono, ma senza efficacia), ora vi sono “governi” che non fanno parte di alcuna Istituzione, dall’ONU alle sue varie emulazioni. Si fondano su potere finanziario, tecnologia ed elusione da ogni vincolo formale e sostanziale. Esistono. Dunque, le vere disuguaglianze non riguardano tanto le classi sociali all’interno dei Paesi ma il dominio delle tecnologie a livello globale. Su quel terreno si misurano le gerarchie tra gli “Stati”, sia fisici (un territorio con i suoi confini) sia di altra natura: i tecnocrati economico-finanziari e quelli dell’informazione, poteri fluidi, impalpabili e nondimeno decisivi, capaci di segnare per tempi imprevedibili le sorti materiali dei popoli, scatenando una sequela ininterrotta di guerre. Alla fine della Seconda guerra mondiale due corti condannarono alla forca i vertici politici e militari della Germania e del Giappone. In Germania erano tutt’uno. In Giappone dipendevano dall’imperatore, che ne uscì indenne. Nessuno chiamò in giudizio chi aveva finanziato l’ascesa del nazionalsocialismo di Hitler considerandolo un bastione contro il bolscevismo di Stalin. Nei suoi ultimi tempi ci meditò il politologo Giorgio Galli, erroneamente inascoltato, quasi fosse visionario.
A scuola per capire che cosa?
Suscita qualche sconcerto l’annuncio della riforma dei programmi dell’istruzione elementare e della scuola secondaria inferiore lasciata trasparire dal ministro della Pubblica istruzione e del merito Giuseppe Valditara, docente di diritto pubblico romano. Al momento non è possibile discuterne in modo assertivo perché non si dispone del testo della “riforma”, solo di una bozza che contiene tuttavia alcuni spunti da subito meritevoli di considerazioni. Una riforma dell’istruzione, destinata ad andare a regime entro un anno, inciderà sul percorso formativo di una generazione e i suoi riflessi positivi o negativi saranno verificabili tra un ventennio, perciò, occorre capire oggi quale sia il razionale “progetto” soggiacente alla riforma proposta da un ministro di accertata cultura storica e giuridica qual è Valditara. In sintesi, le novità consisterebbero (il condizionale è d’obbligo) anzitutto nell’introduzione della musica[1] Poiché le ore di lezione nelle aule non sempre impeccabili delle scuole odierne non sono moltiplicabili all’infinito, si tratta di capire se i nuovi insegnamento vadano a detrimento di altre discipline e precisamente di quali. Lo stesso vale per l’ora di studio del latino (da taluni accolta con tripudio prima di saperne di più) che verrebbe introdotta dalla seconda classe della media inferiore. In quanto “facoltativa” sarebbe fuori orario curricolare? In questo caso, che cosa farebbero in quell’ora gli allievi le cui famiglie non optano per il suo insegnamento? O si faranno classi differenziate: “latinisti” nelle une, riluttanti nelle altre? E quale costrutto formativo può avere lo studio del latino ristretto in un’ora la settimana? O vi si dedica il tempo necessario o è solo un occhiolino, strizzato “per vedere l’effetto che fa”. Se riforma vuol essere, quell’ora settimanale non apre alcuna porta “al vasto patrimonio di civiltà e tradizioni”, né consente di “ritrovare il tema, importantissimo, dell’eredità”, cui pare abbia alluso il ministro. Ci vuol altro per apprendere e “somatizzare” il latino (non parliamo del greco). A meno che quell’ora facoltativa serva ad anticipare la scelta della prosecuzione degli studi nella media superiore e costituisca pertanto più un discrimine che un’opportunità. Se si ritiene che apprendere i rudimenti del latino sia salvifico, il suo insegnamento dev’essere obbligatorio e con adeguato numero di ore settimanali. Significherebbe però – le cose vanno dette come sono – capovolgere ab imis la scuola concepita con l’introduzione della “media unica”, che ha presentato e presenta manchevolezze come ogni cosa al mondo, ma ha avuto il merito di scolarizzare sino al quattordicesimo anno d’età milioni di bambini prima ai margini dell’istruzione pubblica.
Dove para Valditara?
Il ministro ha fatto sapere di aver consultato studiosi insigni delle diverse discipline per approntare l’annunciata riforma e ha sciorinato molti nomi che non menzioniamo. Era il minimo che potesse fare. È però difficile dire se i consultati si riconoscano nelle sue proposte. Prima o poi se ne saprà di più. Chi abbia avuto a che fare con vicende analoghe sa come sia facile essere ridotto a paravento di decisioni che prescindono da qualsiasi suggerimento basato su scienza ed esperienza. Quel che risulta niente affatto convincente è il proposito, enunciato con forza dal ministro, di separare lo studio della storia da quello della geografia. Sono discipline diverse? Certo. Tanto la “storia” quanto la “geografia” sono ciascuna un complesso di specialità sicché il loro insegnamento e apprendimento, tanto più se disgiunto, dipendono dall’orario messo a disposizione. Nella scuola elementare e nella media (non stiamo parlando dei cinque anni delle medie superiori, perché di questo si tratta) la loro fusione in geo-storia non è affatto infondata e, se insegnata in modo appropriato, non risulta che abbia sortito effetti negativi. L’ignoranza degli allievi non nasce dall’inadeguatezza dei programmi ma è il prodotto di insegnamento di bassa qualità, distrazione dei discenti e pretesa dei genitori di avere figli con ottimi voti, poca fatica e nessuna seccatura domestica. Tra i propositi del ministro lascia invece più che perplessi il primato pressoché esclusivo assegnato nello studio della storia a popoli italici, antica Grecia, Roma, cristianesimo, rinascimento, unificazione nazionale e a un generico Occidente. Nessun cenno all’Illuminismo, senza il quale non si comprendono né il Risorgimento, né il Novecento liberale? Forse va scordato per le sue venature razionali? Va osservato inoltre che se la spruzzatina di latino può essere considerata una belluria, la riduzione della storia a dimensione “locale”, qual è quella dell’Italia, costituisce un incomprensibile e inaccettabile passo indietro rispetto alle esigenze di formazione dell’italiano odierno e futuro: cittadino europeo, proiettato a confrontarsi con la molteplicità di etnie, lingue e di costumi di tutto il mondo, con i quali già è e sempre più si troverà a fare i conti nei decenni venturi, anche a casa propria. Lo scolaro oggi ha bisogno di essere messo in grado di capire un articolo o un telegiornale nel quale non si parla solo dell’Italia e non si citano solo le vette alpine o appenniniche ma si parla di Russia (che nei nuovi insegnamenti non sarebbe più Europa), Cina, India, Africa: insomma di tutto quello che era chiarissimo ai patrioti italiani dell’Ottocento. Indubbiamente gli allievi, secondo quanto ventilato dal ministro, potranno e dovranno studiare poeti del Novecento (cita tra altri il ferrarese Riccardo Govoni e il perugino romanizzato Sandro Penna, sublime cantore dell’eros omosessuale, ma lascia ai margini Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo: due Premi Nobel…). Però perché cancellare il già oggi obliato Giosue Carducci di “Pianto antico” e di “Davanti San Guido” e altri classici della letteratura italiana? Con buona pace del ministro, gli ultimi versi del “Tramonto della luna” dello schivato Giacomo Leopardi sono comprensibili anche ai bimbi delle elementari se ben guidati. E oggi sono drammaticamente attuali[2]. Il ministro esorta infine a studiare la Bibbia. Quale dei suoi multiformi libri? Il Deuteronomio, i profeti, i lirici e i sapienziali? O L’Ecclesiaste? Forse è quest’ultimo che deve essere meditato da tutti, governo compreso: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo. Tempo di demolire e tempo di edificare…» Ma per costruire non bastano speranze. Occorre un Progetto razionale, coerente con la realtà e consapevole che il mondo odierno è un universo armato sino ai denti e in corsa verso il precipizio. Gli scolari hanno diritto a conoscerlo, e i genitori hanno il dovere di fare la loro parte per aiutare la scuola a compiere la propria. Piuttosto che “riformare” tanto per dare un segnale è preferibile migliorare l’esistente. Lo insegna l’Ecclesiaste (1, 10): “nihil sub sole novum”…
Aldo A. Mola
[1] “Canto, suono, civiltà musicale” pare abbia dichiarato la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti; altri aggiungono “strumenti e coro”. Nell’oltretomba se ne rallegra Gabriele d’Annunzio che nella Carta del Carnaro assegnò valore costituzionale alla musica e al teatro, non solo “rappresentazioni” occasionali ma “vita” della città dell’uomo.
[2] “Ma la vita mortal, poi che la bella /Giovinezza sparì, non si colora/ d’altra luce giammai, né d’altra aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla notte/ che l’altre etadi oscura,/ segno poser gli Dei la sepoltura”.