Draghi “for president”…

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Il recente discorso di Draghi in Belgio, La Hulpe del 16 aprile, ha avuto nella stampa italiana grande risalto, molte citazioni e articoli laudativi. È molto probabile che la maggioranza dei burocrati di Palazzo Barleymont, non abbia nemmeno sentito o letto il discorso di Draghi. Però, alcuni brevi commenti sono doverosi, almeno sui punti riconosciuti da tutti gli economisti americani da oltre 20 anni. Il primo è sui debiti Pubblici degli Stati membri (mancata visione Hamiltoniana). Già nell’Ottocento, Alexander Hamilton impose il consolidamento di tutti i Debiti dei 13 Stati USA, appena indipendenti, in un solo Debito federale, con una responsabilità condivisa e con un unico tasso di sconto federale. Fin dall’inizio degli accordi di Maastricht, il consolidamento venne rifiutato dalla Germania; i Paesi UE hanno passato 20 anni a scannarsi fra di loro per rispettare non tanto i vincoli dei Debiti di Maastricht, perché si sapeva che erano stati fissati in modo da non riuscire mai a adempiere a tali condizioni, ma soprattutto per lo spread, la differenza dei tassi che i primary Dealers (Banche Internazionali) applicavano per acquistare i Titoli dei vari Paesi. Naturalmente, alla BCE, nell’ottica del puro libero mercato, venne impedito fin dall’inizio di intervenire nelle Aste Primarie dei Titoli, perché i suoi acquisti avrebbero ‘falsato’ il mercato finanziario e limitato i guadagni -di aggio- delle Banche Internazionali sul trading dei Titoli europei. Un bel regalo alla Finanza delle Banche internazionali! Quindi il mercato finanziario della UE non è unico, ma è uguale a quello del 400 a.C., che era il Mercato dei Titoli commerciali di Atene, di Sparta, di Tebe (che in effetti c’era, e con una moneta quasi unica, la “Civetta”, la Dracma di Atene), però la Storia ci ha insegnato che fine abbia fatto la Grecia delle Città Stato, prima con i Macedoni e poi con i Romani.

Il secondo punto è che la UE non è un’Unione, che presuppone un Governo Federale, cioè un Esecutivo, con un Parlamento legislativo federale come quello di Washington, ma è semplicemente un’Istituzione di Stati Indipendenti, sovrani in tutto, tranne che nelle regole commerciali, ecologia, diritti, concorrenza, unificazione dei prodotti commerciali raccomandate dalla Commissione di Bruxelles. Per il resto, ogni Stato indipendente della UE attua la propria politica fiscale, i suoi contributi a aziende e settori, la propria spesa di welfare, pensioni e sanità e politica militare nell’ambito NATO. La UE originale dei 6 Paesi della C.E.C.A. (Germania, Francia, Italia, etc…) si è espansa a ben 27 Paesi, dei quali molti con Prodotto Lordo e una popolazione numericamente inferiore alla provincia di Bergamo. L’incentivo a aderire alla UE, per tutti i nuovi Paesi, è stato nei Contributi Comunitari. Vi sono 3 Paesi (Germania, Francia, Italia) che sono “contributori netti” e tutti gli altri che sono “prenditori netti”, in primis la Polonia, che naturalmente ha costi del lavoro minori, anche perché prende molti contributi. Negli USA non si è mai sentito che il ricco Stato di New York dia contributi alla Louisiana agricola e paludosa, ma ciascuno Stato si organizza come può. Ad esempio, la ricca Florida non applica tasse sulle imprese, e in parte anche il Delaware di Biden, che è un noto paradiso fiscale degli USA. Ma anche l’Europa ha il Lussemburgo e l’Irlanda. Tra l’altro la UE inoltre non ha una lingua comune, ma a Bruxelles domina il “Continental English “una specie di dialetto anglofono con varie tonalità tedesche, polacche, italiche, ispaniche, ma almeno vi è una stessa forma scritta, sebbene astrusa e confusa secondo la logica dei burocrati europei e talvolta incomprensibile. Detto questo analizziamo i vari punti del discorso di Draghi.

All’inizio parla di competitività nella UE, dicendo che il focus iniziale era sbagliato, perché diretto verso l’interno e non verso il resto del mondo. Peccato lo dica 20 anni dopo di una Germania che perseguiva una politica “mercatista”, che ha massacrato i competitor europei. Certo che la UE aveva buone esportazioni, ma al 70% il contributo della bilancia commerciale positiva veniva dalla Germania. Afferma anche che la UE di Maastricht era focalizzata sull’ideologia di un “mercato competitivo perfetto“, mentre, guarda caso, sia la Cina che gli USA non hanno seguito queste regole ideologiche teoriche, ma hanno avuto Governi che hanno fatto politiche industriali aggressive, permettendo economie di scala e attraendo molte imprese UE che decentravano. Naturalmente dice anche che le catene di approvvigionamento (le supply chains) delle imprese europee non erano protette, ovviamente perché tutte le industrie, con il mito del mercato perfetto e dei costi competitivi, si rifornivano dei componenti delle manifatture extra UE, provocando il crollo delle manifatture intermedie nei vari Paesi e la attuale crisi degli approvvigionamenti.

Draghi parla di leadership nelle nuove tecnologie, dicendo che solo 4 attori tecnologici sui 50 principali sono in UE. Anche questo dopo 20 anni di distruzione della R&D nei settori elettronici e delle comunicazioni. Anche in questo settore, la UE si è adagiata come semplice utente dei pochi colossi USA, Google, Microsoft, Apple, Amazon, etc. Si è mai sentito parlare di un Software made in Europe che sia internazionale? Lasciando perdere la tecnologia dei telefoni cellulari, dove 20 anni fa Nokia era la prima al mondo e poi fu lasciata fallire. Cita che abbiamo 34 gruppi di reti di telefonia mobile e che occorre razionalizzare il settore. E il Commissario alla Concorrenza e anti-monopoli della Commissione UE, la Vestager, che cosa ha fatto e ne dice?

Poi il solito commento sui sistemi energetici de-carbonizzati, per essere alla moda e non andare contro le ideologie di Davos, senza spiegare quali sistemi siano, accenna alla Difesa, dicendo che oltre l’80% degli appalti per la Difesa in UE viene da Paesi extra UE, solo il 20% è appaltato alle industrie europee. Naturalmente dice che dovremmo coordinare la spesa e ridurre le dipendenze internazionali. Forse non ha presente che la UE è nella NATO e pertanto i sistemi d’arma dei Paesi devono essere compatibili e integrabili con quelli USA. Non accenna alla rivalità all’interno della UE; insomma è più facile che Fincantieri venda una nave da guerra all’Arabia, piuttosto che alla Germania; come pure che la Dassault venda un aereo Rafale al Brasile piuttosto che all’Olanda. Disquisisce sui beni pubblici, come le reti energetiche che dovrebbero essere interconnesse, della scarsità delle materie prime critiche, insomma auspica (perbacco…) l’intervento dei Governi e non solo degli attori privati. Ma come, il mito delle privatizzazioni di Milton Friedman, adottato da lui[1] e dalla UE dov’è finito?

Arriva così a parlare del mercato del lavoro: tre quarti delle imprese europee hanno difficoltà a trovare collaboratori competenti e ben il 14% della forza lavoro concentrato su 28 occupazioni soffre di carenza di manodopera. Bene, ha scoperto il disastro, noto a tutti, delle scuole medie, tecniche e delle Università europee. Non parliamo dell’Italia, che annovera a Milano lo stesso numero di avvocati di tutta la Francia. Perché scannarsi nello studio se poi un ingegnere neoassunto riceve 1000 € al mese? O un medico deve fare sei anni di specializzazione in borsa di studio, prima di un eventuale impiego in ospedale? Alla fine, Draghi arriva al dunque, accenna ad una possibile prossima modifica del Trattato di Lisbona, per operare una “ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della C.E.C.A.”

Un commento finale alla Bartali potrebbe essere: “…è tutto da rifare.”. Un’analisi che sarebbe stata appropriata qualche anno fa, peccato che capiti in un momento di guerre Russo/Ucraina/NATO e tra Israele/Hamas/Hezbollah e Iran. Com’è noto, le guerre costano soldi, quindi si pagano producendo masse monetarie a Debito Pubblico, da parte USA, Europa, Israele e altri.  Quando le Banche Centrali (FED e BCE) parlano di inflazione che non permette di ridurre i tassi, non dicono ai cittadini  europei che questa inflazione non è provocata dalle imprese private e dai consumatori, ma bensì dai soldi buttati dai Governi nella voragine delle spese per finanziare le guerre. C’è da chiedersi dove troverà la UE i soldi per modificare la struttura economica e di coordinamento dei Paesi membri. La stampa italiana ha concluso frettolosamente che Draghi, con questa analisi approssimativa, voglia porsi come Candidato di punta per la carica di Presidente della Commissione UE. Una cosa che è possibile, superando la fila[2] dei candidati ufficiali, senza passare dal voto popolare. Qui[3] il discorso di Draghi.

Fabrizio Gonni

Laurea in Ingegneria, MBA Economia Aziendale. Componente ISPG Istituto Studi Politici Giorgio Galli

mail: gonni@istitutostudipolitici.it


[1] Dopo ben 30 anni dall’avvenuto smantellamento dell’IRI, che era la base dell’industria pesante italiana, quando era direttore del ministero.

[2] “SpitzKandidat” ufficiali alla Presidenza della Commissione:Nicolas Schmit , lussemburghese, Commissario al Lavoro proposto dal Partito S&D, la Valerie Hayer, francese, capogruppo di Renew Europe, anche del Premier croato Plenkovic, e di Roberta Metsola, di Malta. Poi concorre alla carica per il PPE  l’uscente Ursula. Con tutta la buona volontà non si può dire che sia un parco candidati che porti la UE fuori dai guai.

[3] Intervento di Mario Draghi alla cosiddetta Conferenza di alto livello sul pilastro europeo dei diritti sociali a La Hulpe (Belgio):

Buongiorno a tutti. In un certo senso questa è la prima volta che ho l’opportunità di iniziare a condividere con voi come si stanno delineando la struttura e la filosofia di quello che sarà il mio rapporto. Per molto tempo la competitività è stata una questione controversa per l’Europa. Nel 1994, il futuro economista premio Nobel Paul Krugman definì l’attenzione alla competitività una “pericolosa ossessione”. La sua tesi era che la crescita a lungo termine deriva dall’aumento della produttività, che avvantaggia tutti, piuttosto che dal tentativo di migliorare la propria posizione relativa rispetto agli altri e acquisire la loro quota di crescita. L’approccio adottato nei confronti della competitività in Europa dopo la crisi del debito sovrano sembrava dimostrare la sua tesi. Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale.

Ma la questione fondamentale non è che la competitività sia un concetto errato. Il fatto è che l’Europa ha avuto un focus sbagliato. Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale positiva, dopo tutto, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla nostra competitività all’estero come una seria questione politica. In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo confidato nella parità di condizioni globale e nell’ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando rapidamente e ci ha colto di sorpresa. Ancora più importante, altre regioni non rispettano più le regole e stanno elaborando attivamente politiche per migliorare la loro posizione competitiva. Nella migliore delle ipotesi, queste politiche sono progettate per reindirizzare gli investimenti verso le loro economie a scapito delle nostre; e, nel peggiore dei casi, sono progettati per renderci permanentemente dipendenti da loro.

La Cina, ad esempio, mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie. Questa rapida espansione dell’offerta sta portando a un significativo eccesso di capacità in molteplici settori e minacciando di indebolire le nostre industrie. Gli Stati Uniti, da parte loro, stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all’interno dei propri confini – compresa quella delle aziende europee – mentre utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento. Non abbiamo mai avuto un “accordo industriale” equivalente a livello UE, anche se la Commissione ha fatto tutto ciò che era in suo potere per colmare questa lacuna. Pertanto, nonostante una serie di iniziative positive in corso, manca ancora una strategia generale su come rispondere in molteplici aree.

Ci manca una strategia su come tenere il passo in una corsa sempre più spietata per la leadership nelle nuove tecnologie. Oggi investiamo meno in tecnologie digitali e avanzate rispetto a Stati Uniti e Cina, anche per la difesa, e abbiamo solo quattro attori tecnologici europei globali tra i primi 50 a livello mondiale. Manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da un terreno di gioco globale ineguale causato da asimmetrie nelle normative, nei sussidi e nelle politiche commerciali. Un esempio calzante è rappresentato dalle industrie ad alta intensità energetica. In altre regioni, queste industrie non solo devono far fronte a costi energetici più bassi, ma devono anche far fronte a un minore onere normativo e, in alcuni casi, ricevono massicci sussidi che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere. Senza azioni politiche strategicamente progettate e coordinate, è logico che alcune delle nostre industrie ridurranno la capacità produttiva o si trasferiranno al di fuori dell’UE.

E ci manca una strategia per garantire di avere le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze. Abbiamo giustamente un’agenda climatica ambiziosa in Europa e obiettivi ambiziosi per i veicoli elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse di cui abbiamo bisogno, tale agenda deve essere combinata con un piano per proteggere la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici alle batterie fino alle infrastrutture di ricarica. La nostra risposta è stata limitata perché la nostra organizzazione, il processo decisionale e i finanziamenti sono progettati per “il mondo di ieri”: pre-Covid, pre-Ucraina, pre-conflagrazione in Medio Oriente, prima del ritorno della rivalità tra grandi potenze.

Ma abbiamo bisogno di un’UE adatta al mondo di oggi e di domani. E quindi quello che propongo nella relazione che il Presidente della Commissione mi ha chiesto di preparare è un cambiamento radicale, perché è ciò di cui abbiamo bisogno. In definitiva, dovremo realizzare la trasformazione dell’intera economia europea. Dobbiamo poter contare su sistemi energetici decarbonizzati e indipendenti; un sistema di difesa integrato e adeguato basato sull’UE; manifattura nazionale nei settori più innovativi e in rapida crescita; e una posizione di leadership nel deep-tech e nel digitale. Ma poiché i nostri concorrenti si muovono velocemente, dobbiamo anche valutare le priorità. Sono necessarie azioni immediate nei settori con la maggiore esposizione alle sfide verdi, digitali e di sicurezza. Nella mia relazione ci concentriamo su dieci di questi macrosettori dell’economia europea.

Ogni settore richiede riforme e strumenti specifici. Tuttavia, nella nostra analisi emergono tre filoni comuni per gli interventi politici. Il primo filo conduttore è consentire la scalabilità. I nostri principali concorrenti stanno approfittando del fatto di essere economie di dimensioni continentali per generare scala, aumentare gli investimenti e conquistare quote di mercato per i settori in cui conta di più. In Europa abbiamo lo stesso vantaggio in termini di dimensioni naturali, ma la frammentazione ci frena. Nel settore della difesa, ad esempio, la mancanza di scala sta ostacolando lo sviluppo della capacità industriale europea, un problema riconosciuto nella recente Strategia europea per l’industria della difesa. I primi cinque operatori negli Stati Uniti rappresentano l’80% del suo mercato più ampio, mentre in Europa ne costituiscono il 45%. Questa differenza deriva in gran parte dal fatto che la spesa per la difesa dell’UE è frammentata. I governi non appaltano molto insieme – gli appalti collaborativi rappresentano meno del 20% della spesa – e non si concentrano abbastanza sul nostro mercato: quasi l’80% degli appalti negli ultimi due anni proviene da paesi extra-UE. Per soddisfare le nuove esigenze di difesa e sicurezza, dobbiamo intensificare gli appalti congiunti, aumentare il coordinamento della nostra spesa e l’interoperabilità delle nostre attrezzature e ridurre sostanzialmente le nostre dipendenze internazionali.

Un altro esempio in cui non stiamo sfruttando la scala è quello delle telecomunicazioni. Abbiamo un mercato di circa 450 milioni di consumatori nell’UE, ma gli investimenti pro capite sono la metà di quelli degli Stati Uniti e siamo in ritardo nella diffusione del 5G e della fibra. Uno dei motivi di questo divario è che in Europa abbiamo 34 gruppi di reti mobili – e questa è una stima prudente, in realtà ne abbiamo molti di più – che spesso operano su scala nazionale, contro tre negli Stati Uniti e quattro in Cina. Per produrre maggiori investimenti, dobbiamo razionalizzare e armonizzare ulteriormente le normative sulle telecomunicazioni tra gli Stati membri e sostenere, non ostacolare, il consolidamento. E le dimensioni sono cruciali, in modo diverso, anche per le giovani aziende che generano le idee più innovative. Il loro modello di business dipende dalla capacità di crescere rapidamente e commercializzare le proprie idee, il che a sua volta richiede un ampio mercato interno. E la scala è essenziale anche per lo sviluppo di farmaci nuovi e innovativi, attraverso la standardizzazione dei dati dei pazienti dell’UE e l’uso dell’intelligenza artificiale, che ha bisogno di tutta questa ricchezza di dati di cui disponiamo, se solo potessero essere standardizzati. In Europa siamo tradizionalmente molto forti nella ricerca, ma non riusciamo a portare l’innovazione sul mercato e a migliorarlo. Potremmo affrontare questo ostacolo, tra le altre cose, rivedendo l’attuale regolamentazione prudenziale sui prestiti bancari e istituendo un nuovo regime normativo comune per le start-up nel settore tecnologico.

Il secondo filone riguarda la fornitura di beni pubblici. Laddove ci sono investimenti da cui tutti beneficiamo, ma che nessun paese può portare a termine da solo, abbiamo validi motivi per agire insieme, altrimenti non forniremo risultati adeguati rispetto alle nostre esigenze: non forniremo risultati soddisfacenti in termini di clima, ad esempio nella difesa, e anche in altri settori. Nell’economia europea esistono diversi punti di strozzatura in cui la mancanza di coordinamento fa sì che gli investimenti siano inefficienti. Le reti energetiche, e in particolare le interconnessioni, ne sono un esempio. Si tratta di un chiaro bene pubblico, poiché un mercato energetico integrato ridurrebbe i costi energetici per le nostre aziende e ci renderebbe più resilienti di fronte alle crisi future – un obiettivo che la Commissione sta perseguendo nel contesto di REPowerEU. Ma le interconnessioni richiedono decisioni sulla pianificazione, sul finanziamento, sull’approvvigionamento di materiali e sulla governance che sono difficili da coordinare – e quindi non saremo in grado di costruire una vera Unione dell’energia se non raggiungiamo un approccio comune.

Un altro esempio è la nostra infrastruttura di supercalcolo. L’UE dispone di una rete pubblica di computer ad alte prestazioni (HPC) di livello mondiale, ma le ricadute sul settore privato sono attualmente molto, molto limitate. Questa rete potrebbe essere utilizzata dal settore privato – ad esempio startup di intelligenza artificiale e PMI – e in cambio, i benefici finanziari ricevuti potrebbero essere reinvestiti per aggiornare gli HPC e sostenere l’espansione del cloud nell’UE. Una volta identificati questi beni pubblici, dobbiamo anche darci i mezzi per finanziarli. Il settore pubblico ha un ruolo importante da svolgere, e ho già parlato in precedenza di come possiamo utilizzare meglio la capacità di prestito congiunta dell’UE, soprattutto in settori – come la difesa – in cui la spesa frammentata riduce la nostra efficacia complessiva. Ma la maggior parte del gap di investimenti dovrà essere coperto da investimenti privati. L’UE dispone di risparmi privati molto elevati, ma sono per lo più incanalati nei depositi bancari e non finiscono per finanziare la crescita come potrebbero in un mercato dei capitali più ampio. Questo è il motivo per cui il progresso dell’Unione dei mercati dei capitali (UMC) è una parte indispensabile della strategia complessiva per la competitività.

Il terzo filo conduttore è garantire la fornitura di risorse e input essenziali. Se vogliamo realizzare le nostre ambizioni climatiche senza aumentare la nostra dipendenza dai paesi su cui non possiamo più fare affidamento, abbiamo bisogno di una strategia globale che copra tutte le fasi della catena di approvvigionamento minerale fondamentale. Attualmente stiamo in gran parte lasciando questo spazio agli attori privati, mentre altri governi guidano direttamente o coordinano fortemente l’intera catena. Abbiamo bisogno di una politica economica estera che offra lo stesso risultato alla nostra economia. La Commissione ha già avviato questo processo con la legge sulle materie prime critiche, ma abbiamo bisogno di misure complementari per rendere i nostri obiettivi più tangibili. Ad esempio, potremmo prevedere una piattaforma europea dedicata ai minerali critici, principalmente per gli appalti congiunti, la sicurezza dell’approvvigionamento diversificato, la messa in comune, il finanziamento e lo stoccaggio.

Un altro input cruciale che dobbiamo garantire – e questo è particolarmente importante per voi, parti sociali – è la nostra offerta di lavoratori qualificati. Nell’UE, tre quarti delle aziende segnalano difficoltà nel reclutare dipendenti con le giuste competenze, mentre 28 occupazioni che rappresentano il 14% della nostra forza lavoro sono attualmente identificate come caratterizzate da carenza di manodopera. Con le società che invecchiano e gli atteggiamenti meno favorevoli nei confronti dell’immigrazione, avremo bisogno di trovare queste competenze internamente. Molteplici parti interessate dovranno lavorare insieme per garantire la pertinenza delle competenze e definire percorsi flessibili di miglioramento delle competenze. Uno degli attori più importanti in questo senso sarete voi, le parti sociali. Siete sempre stati fondamentali in tempi di cambiamento e l’Europa farà affidamento su di voi per contribuire ad adattare il nostro mercato del lavoro all’era digitale e dare maggiore potere ai nostri lavoratori. Questi tre filoni ci impongono di riflettere profondamente su come ci organizziamo, cosa vogliamo fare insieme e cosa vogliamo mantenere a livello nazionale. Ma data l’urgenza della sfida che ci troviamo ad affrontare, non possiamo permetterci il lusso di ritardare le risposte a tutte queste importanti domande fino alla prossima modifica del Trattato.

Per garantire la coerenza tra i diversi strumenti politici, dovremmo essere in grado di sviluppare ora un nuovo strumento strategico per il coordinamento delle politiche economiche. E se dovessimo scoprire che ciò non è fattibile, in casi specifici, dovremmo essere pronti a considerare di procedere con un sottoinsieme di Stati membri. Ad esempio, una cooperazione rafforzata potrebbe essere una via da seguire per mobilitare gli investimenti. Ma di norma, credo che la coesione politica della nostra Unione richieda che agiamo insieme – possibilmente sempre. E dobbiamo essere consapevoli che la stessa coesione politica è oggi minacciata dai cambiamenti nel resto del mondo. Ripristinare la nostra competitività non è qualcosa che possiamo raggiungere da soli, o solo battendoci a vicenda. Ci impone di agire come Unione europea in un modo mai fatto prima. I nostri rivali ci stanno precedendo perché possono agire come un unico paese con un’unica strategia e allineare dietro di essa tutti gli strumenti e le politiche necessarie. Se vogliamo eguagliarli, avremo bisogno di un rinnovato partenariato tra gli Stati membri – una ridefinizione della nostra Unione che non sia meno ambiziosa di quella che fecero i Padri Fondatori 70 anni fa con la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.

 

 

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A proposito di Riforme, una data da non dimenticare: 18 aprile 1993

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