Luglio 1943 – maggio 1945. Il Paese visse i tempi più tragici dall’unità. All’inizio del Novecento, aperto dal regicidio, il regno d’Italia contava appena quarant’anni dalla proclamazione e solo da trenta aveva annesso Roma, coronamento del progetto enunciato nel marzo 1861 da Camillo Cavour ma anche causa della sua drastica “condanna”, anzi “scomunica”, da parte di Pio IX. All’opposto di quanto recentemente affermato da Ernesto Galli della Loggia, non vi fu affatto una “conventio ad excludendum” dei cattolici dalla direzione dello Stato (“Corriere della Sera”, 21 settembre 2023, p.32). Contrariamente a quanto proposto da molti ecclesiastici di prestigio, come Luigi Tosti, abate di Montecassino, e il teologo Carlo Passaglia, deputato di Montecchio e autore della “Petizione a Pio IX e ai Vescovi” sottoscritta da novemila sacerdoti fautori dell’immediata conciliazione tra la Chiesa e il Regno d’Italia il pontefice provocò la secessione dei cattolici dalla vita politica nazionale. A quella lacerazione altre se ne aggiunsero. Mentre Giuseppe Garibaldi, “primo massone d’Italia” e da tanti democratici optarono per “Italia e Vittorio Emanuele”, la soluzione sabauda fu rifiutata dai repubblicani intransigenti, numericamente esigui e tuttavia influenti in ambenti settari, e dai socialisti che in tutte le loro componenti rifiutarono le sollecitazioni ad assumere responsabilità di governo più volte avanzate, anche dal liberal-democratico Giovanni Giolitti.
1943: un Re isolato
Usciti da mezzo secolo di opposizione, gli esponenti di movimenti e partiti pregiudizialmente anti-statutari (ma anche molti “democratici”) non gli riconobbero alcun merito, rifiutarono di collaborare con il governo e posero imperiosamente la questione istituzionale. Il “lungo regno” di Vittorio Emanuele III formalmente si protrasse sino all’annuncio del trasferimento al figlio Umberto di Piemonte di tutte le prerogative regie, nessuna esclusa (12 aprile 1944), all’insediamento del principe a Luogotenente del regno (5 giugno), all’abdicazione del sovrano e alla sua partenza “per l’estero”, non “in esilio” (9 maggio 1946). Secondo la narrazione subito prevalsa e tuttora perdurante, sino al governo presieduto da Ferruccio Parri, già comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e Libertà” (giugno 1945), l’Italia non aveva conosciuto alcuna vera democrazia. Tale affermazione fu confutata da Benedetto Croce, già stigmatizzato da Palmiro Togliatti al rientro dell’Unione sovietica di Stalin. A quel modo il filosofo si consegnò a sua volta all’emarginazione politica. La guida culturale ed “etica” dei decenni seguenti non furono più le sue opere ma i “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci, fortunosamente fatti pervenire a Togliatti da Piero Sraffa. Senza pretesa di prevalere sui luoghi comuni stratificati nella narrazione mediatica e nella manualistica scolastica, gli atti[1] dei convegni di studio di Vicoforte raccolti in volume documentano, rettificano e offrono motivo di riflessione innovativa. L’Italia che ne emerge risulta quale venne ideata e realizzata dal Risorgimento: protagonista a pieno titolo di una storia dell’Europa che nel 1914 imboccò la discesa agl’inferi con l’inizio della nuova guerra dei trent’anni, conclusa nel 1945 con la sua lunga e tutt’oggi perdurante eclissi politico-diplomatico-militare. In tale ambito Vittorio Emanuele III emerge quale protagonista della grande storia. Rimane in attesa di essere pienamente compreso.
25 luglio-19 ottobre 1943: in poche settimane l’Italia voltò pagina. La svolta fu decisa dal Re. Da tempo privo di sostegno di politici ante-fascisti e, meno ancora, di gerarchi come Galeazzo Ciano, invano sondati dal ministro della Real Casa Pietro d’Acquarone per imprimere una piega diversa al corso della storia, confidando in militari fedelissimi, a cominciare dai Carabinieri, il 25 luglio Vittorio Emanuele III esercitò i poteri della Corona, e sostituì Mussolini con Badoglio, che, su sua direttiva, smantellò il regime fascista e puntò a portare l’Italia al di fuori della guerra.
La “resa senza condizioni” (3 settembre). Fu dettata dagli anglo-americani a nome delle Nazioni Unite e l’Italia perse la piena sovranità. Però con il trasferimento da Roma a Brindisi (9 settembre) il Re salvò la continuità dello Stato. In gran parte occupata dai tedeschi e per l’altra sottoposta agli anglo-americani, l’Italia rimase divisa tra Repubblica sociale italiana, proclamata da Benito Mussolini, policentrica e vassalla della Germania, e il Regno, potere riconosciuto legittimo dalle Nazioni Unite.
Cobelligerante dal 13 ottobre. Vittorio Emanuele III non ebbe la collaborazione dei partiti, in massima parte avversi al re e alla monarchia. Sottoposta a pesanti bombardamenti, invasa e bersaglio di rivalse estere antiche e nuove, l’Italia faticò a imboccare la via della riscossa ma risalì la china e, a parte la tragica amputazione sul versante orientale, mantenne quasi tutti i confini conseguiti con le guerre per l’indipendenza[2]. Se ne parlerà a Vicoforte, sabato 7 ottobre in un importante convegno con autorevoli relatori, con il programma sotto esposto.
Aldo A. Mola
Un innovativo convegno[3] di studi a Vicoforte (Cuneo). Sabato 7 ottobre 2023
“L’estate di Vittorio Emanuele III: 25 luglio-19 ottobre 1943”
[1] Presentazione del volume sul lungo Regno di Vittorio Emanuele III. A margine del convegno sarà presentato un volume sul lungo regno di Vittorio Emanuele III. Esso raccoglie gli Atti dei convegni di studi svolti a Vicoforte il 9 ottobre 2021 su “Il Re Soldato per il Milite Ignoto: la riscossa della monarchia statutaria (1919-1921)” e il 1° ottobre 2022 su “La crisi politica italiana del 1922”, a prosecuzione del percorso intrapreso con il convegno “Da Caporetto alla Vittoria” (Saluzzo, 2017-2018) e con quelli su “Il lungo regno di Vittorio Emanuele III”, scandito in “L’età vittorioemanuelina/giolittiana,1900-1921” (Vicoforte,28-29 settembre 2018), “Corona e regime: gli anni del consenso, 1922-1937” (Vicoforte 8 ottobre 2019) e “Gli anni delle tempeste: meditazioni, ricordi e congedo, 1938-1946” (Vicoforte, 10 ottobre 2020).
Nei loro contributi gli autori sintetizzano e innovano opere pubblicate in saggi e volumi. La serie dei convegni focalizza specifici “momenti” della prima metà del Novecento e, al tempo stesso, supera la segmentazione del lungo periodo in “eventi” che vanno collocati nella visione complessiva dello Stato. I “centenari” e/o i “periodi” via via individuati non sono tributo convenzionale a una data o a “episodi” ma fanno percepire la genesi e i capisaldi dello Stato (corona, parlamento, politica estera, forze armate, movimenti e partiti politici, vita culturale, dinamica economica e sociale…). L’ampio ventaglio di temi messi a fuoco nel volume evidenzia la centralità della monarchia statutaria nel regno d’Italia e, di conseguenza, della condotta del Re. Dopo il decennio di fine Ottocento, nel cui corso si susseguirono una decina di governi talora di brevissima durata (l’ultimo ministero presieduto dal marchese Antonio Starrabba di Rudinì resse solo quattro settimane), il regime parve trovare stabilità con la coalizione presieduta dal democratico bresciano Giuseppe Zanardelli, subentrato all’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato. La “svolta liberale” di inizio secolo si sostanziò nella fiducia accordata al nuovo governo da parte della Camera eletta nel giugno 1900, mentre presidente del Consiglio era il generale Luigi Pelloux, già ministro della Guerra (1892-1893), e poi a quello dal novembre 1903 presieduto da Giolitti.
Il regio decreto 14 novembre 1901, n. 466 sulle “materie da sottoporsi al Consiglio dei ministri” chiarì che il suo presidente rappresentava il gabinetto, manteneva l’unità d’indirizzo politico e amministrativo di tutti i ministeri e curava l’adempimento “degli impegni presi dal governo nel discorso della Corona, nelle sue relazioni con il Parlamento e nelle manifestazioni fatte al paese”. Precisò che il ministro degli Esteri conferiva col presidente del Consiglio su tutte le note e comunicazioni che impegnassero la politica del governo nei rapporti con quelli esteri. Dal 1892 al 1922 nessun presidente del Consiglio fu titolare degli Esteri, a differenza di quanto era accaduto con Camillo Cavour e Francesco Crispi (ma solo nel 1889-1891) e avvenne poi con Benito Mussolini che assunse Esteri e Interno. Il regio decreto del 1901 non rafforzò né la camera elettiva né il governo ma il presidente del Consiglio, interlocutore privilegiato del sovrano. Fu un passo avanti verso la futura legge istitutiva del “capo del governo” (24 dicembre 1925, n. 2263). A differenza di quanto solitamente viene detto, questa non intaccò affatto le prerogative statuarie del re. Essa infatti sancì: “Il Capo del governo è nominato e revocato dal Re ed è responsabile verso il Re dell’indirizzo generale politico del governo”.
L’evoluzione del regime monarchico conferì maggior peso alla dirigenza politica. Erano gli anni delle riflessioni di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels sulle élites e sui partiti. Proprio per la preminenza delle “personalità” chiamate a reggere le sorti del Paese la storiografia parve chiamata a dedicare speciale attenzione ai profili politico-istituzionali del Re, dei suoi più stretti collaboratori (a cominciare dai ministri della Real Casa e dai suoi primi aiutanti di campo), dei presidenti del Consiglio e dei maggiorenti delle Camere. A lungo furono invece privilegiati altri temi, prevalentemente socio-economici. Le “dottrine politiche” prevalsero sull’azione di chi esercitò il potere, la rappresentazione travalicò i “fatti”. Alcuni dei dodici presidenti che si susseguirono alla guida dei venti ministeri alternatisi tra il 1900 e il 1922 ancora attendono biografie esaustive. Nell’ordine si alternarono, talora per brevi periodi, Saracco, Zanardelli, Giolitti, Alessandro (Sandrino) Fortis (due ministeri), Sidney Sonnino, Giolitti, Sonnino, Luigi Luzzatti, Giolitti, Salandra, Paolo Boselli, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti (due governi consecutivi), Giolitti, Ivanoe Bonomi e Luigi Facta (due ministeri per un insieme di otto mesi): una ridda di ministri e sottosegretari che conduce a riflettere sulla centralità del Re nel regime statutario configurato quale “triangolo scaleno”, come documentato in saggi compresi nel volume. Mancano biografie scientifiche di personalità eminenti (inclusi ministri di vaste vedute ma al governo per breve periodo, Leone Wollemborg), volutamente rimaste al di fuori del governo (Ettore Ferrari) ma non delle istituzioni (è il caso di Ernesto Nathan, che tentò l’elezione alla Camera e fu sindaco di Roma con il sostegno personale del Re e del presidente Giolitti).
Al tempo stesso vi era e vi è motivo di porre al centro dell’attenzione forma e sostanza dei poteri apicali dello Stato, immutati dalla promulgazione della Carta Albertina al 1944. Essi furono esercitati dal Re come e quando ritenne di doverlo fare: in specie il 27-30 ottobre 1922 quando incaricò Mussolini di formare il governo, il 25 luglio 1943 quando lo revocò e il 3-8 settembre quando, in nome del governo da lui nominato, il generale Giuseppe Castellano sottoscrisse a Cassibile la resa incondizionata dell’Italia agli anglo-americani operanti in nome delle Nazioni Unite. Con quell’atto Vittorio Emanuele III garantì la continuità dello Stato d’Italia al di là della sconfitta militare.
[2] Grazie all’iniziativa di Vittorio Emanuele III la sua sorte fu ben diversa da quella riservata dai vincitori alla Germania e ai suoi satelliti nell’Europa orientale, per decenni sottoposti all’Unione sovietica, con il consenso dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano.
[3] Nel convegno del 7 ottobre (in programma dalle 10 alle 19 a Casa Regina Montis Regalis di Vicoforte, accesso libero) ne parlano, documenti alla mano, storici di diverso orientamento, uniti nella ricerca della verità dei fatti attraverso le carte d’archivio: Giuseppe Catenacci, presidente onorario dell’Associazione ex Allievi della Nunziatella, il col. Carlo Cadorna, figlio del generale Raffaele, comandante del Corpo Volontari della Libertà, i generali Tullio Del Sette, già comandante dei Carabinieri, e Antonio Zerrillo, Aldo Ricci, p. sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, i docenti Raffaella Canovi, GianPaolo Ferraioli, Rossana Mondoni con Daniele Comero, Massimo Nardini, Tito Lucrezio Rizzo, già Consigliere della Presidenza della Repubblica, Gianpaolo Romanato, Giorgio Sangiorgi. Con Gianni Rabbia presiedono Alessandro Mella e Gianni S. Cuttica. Il convegno è promosso dall’Associazione di studi storici Giovanni Giolitti e dall’Associazione di studi sul Saluzzese, presieduta da Attilio Mola, con la adesione di enti e istituti. La scelta di Vicoforte non è casuale. Nel suo Santuario dal 2017 riposano le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena, traslate per iniziativa della principessa Maria Gabriella di Savoia, propiziata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.