Piccoli borghi, vasti orizzonti
Imperversano ‘giochi di società’ spacciati per alta politica, come il conto dell’oste e il caro-benzina. In questa corsa collettiva a un futuro senza meta, il cosiddetto “progresso”, il cui drammatico limite è l’opposto di quanto si creda. Privo di basi scientifiche, frutto di improvvisazione, anziché di progettazione e di “piani”, che vanno approntati e approvati anziché rinviati in nome di un liberismo/liberistico senza capo né coda, come quello dilagante. Oggi, dunque, dopo anni di lidi remoti, raggiunti con viaggi faticosi e infine deludenti (stessa spiaggia, stesso mare…), ripetono con Vincenzo Monti: “Bella Italia, amate sponde/ pur vi torno a riveder / Trema in petto e si confonde/ l’alma oppressa dal piacer”. Il politicamente versipelle Monti (pontificio, liberaloide, francofilo, poi allineato con il ritorno di Astrea, cioè del dominio asburgico sul Lombardo-Veneto) rientrava in Italia al seguito di Napoleone Bonaparte da un breve esilio a Parigi. La sua “contemplazione dell’Italia” andava comunque al di là delle ideologie. La “dottrina Monti” (N.d.r.: da non confondere con la successiva dottrina dell’altro Monti, Mario) sull’impareggiabile bellezza dell’Italia fu condivisa da Alessandro Manzoni, che nei “Promessi sposi” cesellò cammei raffinatissimi (come “Addio monti, cime ineguali…”), poi “mandati a memoria” da generazioni di studenti.
Avessimo ancora tanti don Stoppani
A codificare l’immagine dell’Italia non fu un illuminista ma don Antonio Stoppani (Lecco, 1824-Milano, 1891), partecipe da seminarista alle Cinque Giornate di Milano, ammiratore di Manzoni e del teologo Vincenzo Gioberti, autore di opere di fama europea su paleontologia e glaciologia. Tra i fondatori dell’Istituto geologico del regno, don Stoppani concorse alla redazione della carta geologica dell’Italia, importante anche per la vulcanologia e lo studio dei terremoti. Primo presidente del Club Alpino Italiano, promosso da Quintino Sella, a sua volta uomo dal multiforme ingegno, nel 1875 pubblicò Il Bel Paese, dalla subito vasta fortuna. Lasciate tra parentesi le dispute pro e contro il potere temporale dei papi, le gare tra i partiti dell’epoca (clan regionali e clientele di notabili), don Stoppani cantò le bellezze dell’Italia e incitò ad averne cura. Ognuno doveva fare la propria parte quando la rete ferroviaria era appena albeggiante rispetto a quella dei Paesi molto più industrializzati e i viaggi si facevano su birocci, a cavallo o “pedibus calcantibus”. Ai tempi di don Stoppani l’Italia contava quasi trentamila parroci e circa centomila “religiosi”. Se tra questi ci fossero stati due-tremila don Stoppani, “a viso aperto e sorridente” come lui, il Paese avrebbe fatto un balzo in avanti di cent’anni.
L’Italia delle cento città di Strafforello
Quella era l’Italia delle cento città, descritta provincia per provincia, un circondario dopo l’altro, comune per comune da Gustavo Strafforello (Porto Maurizio, 1820-1903) traduttore del famoso Self-Help di Samuel Siles col fortunato titolo “Chi si aiuta, il Ciel lo aiuta”: manuale psico-sociale di grande successo in un’epoca che vide trionfare la scuola e le forze armate quali ascensori sociali, sull’esempio di quanto nei secoli aveva fatto la Chiesa cattolica al cui vertice si susseguirono non solo esponenti di famiglie potenti (dai Della Rovere ai de Medici…) ma anche popolani come i santi Celestino V e Pio V, nato a Bosco Marengo. La Patria descritta da Strafforello in dispense da 60 centesimi l’una fece conoscere a una miriade di lettori geografia, attualità economica e imprenditoriale, storia e paesaggi, con tanto di carte geo-storiche, piante topografiche delle città, ritratti di personaggi famosi, monumenti e vedute di ogni terra d’Italia. Un vero e proprio capolavoro che divulgò la conoscenza del Bel Paese e implicitamente invitò a esplorarlo “de visu” dopo averlo conosciuto per scritto e da nitide incisioni, o magari sfogliando le sontuose pagine dell’“Illustrazione Italiana”.
“Nazione” o “civiltà”?
Checché qualcuno dica, gli italiani, come gli spagnoli, gli inglesi e via continuando, non sono mai stati una “nazione” ma furono e sono crogiolo di popoli. La “nazione” è un’invenzione regressiva della Rivoluzione francese: quella della Convenzione repubblicana, che partorì il culto dell’Ente Supremo e il Terrore. Da Universale retrocesse a franco-centrica. Imbalsamò gli ideali dell’Ottantanove. Con plaghe (e piaghe) di arretratezza e sottosviluppo documentate dai censimenti decennali, dopo la “nascita” nel 1861 l’Italia fu spesso indotta e/o costretta a fare il passo più lungo della gamba. Dopo aver immaginato di accaparrarsi la Nuova Guinea per farne una “colonia penale” sul pessimo esempio della francese Nuova Caledonia, andò alla conquista di un lembo di Mar Rosso e della remotissima Somalia e mirò a imporsi sull’impero d’Etiopia quando milioni di suoi abitanti migravano all’estero in cerca di lavoro: prima i liguri e i piemontesi, poi dal Veneto e dal Mezzogiorno… La “colonizzazione interna” consigliata a Francesco Crispi dal suo fraterno sodale Adriano Lemmi rimase un miraggio. A insegnare le vie d’Italia erano poeti come Giosue Carducci che, già docente all’Università di Bologna, per visitarla si faceva nominare commissario a esami di maturità e vagava dall’una all’altra regione con pochi quattrini (glieli centellinava la scorbutica moglie) e con sommari di storia e geografia dai quali traeva alimento per odi famosissime come “Piemonte” e “Cadore”. Dopo l’assassinio di Umberto I a Monza il 29 luglio 1900 – il suo anniversario passa sempre nell’indifferenza dei “media”, dimentichi che fu il secondo Capo dello Stato d’Italia – decollarono le associazioni per la promozione della coscienza unitaria. Nel 1894 a Milano, città sempre all’avanguardia, era stato fondato il Touring Club Italiano, seguito dal Regio Automobile Club Italiano (RACI) e via via dal Moto Club d’Italia e dall’Aereo Club d’Italia. Come già il CAI, anche i nuovi sodalizi ebbero nomi anglicizzanti. La svolta decisiva per la riscoperta dell’Italia da parte dei suoi cittadini venne all’indomani della Grande Guerra, come documenta Ester Capuzzo (1) il governo di Mussolini non inventò granché. Mise a buon frutto l’opera avviata da Luigi Luzzatti e soprattutto dal poliedrico Maggiorino Ferraris, deputato, senatore, proprietario della “Nuova Antologia”.
Oggi, dunque, ri-scopriamo la Grande Italia. Ma va fatto nell’ottica della Grande Europa e in una visione planetaria dei problemi nostrani, senza chiusure italocentriche. Il protezionismo non paga mai. Alza steccati, impoverisce la circolazione delle idee e anche quella degli uomini, che ha fatto le fortune di tutte le grandi civiltà, a cominciare da quella greco-romana, per molti versi insuperata radice dell’Italia odierna.
Aldo A. Mola
(1) In “Italiani. Visitate l’Italia. Politiche e dinamiche turistiche in Italia tra le due guerre mondiali” (ed. Luni), pubblicata nel centenario della fondazione dell’Ente Nazionale per l’Incremento delle Industrie Turistiche, l’ENIT. Basato su ampia ricerca archivistica e sulla scia degli eccellenti saggi di Annunziata Berrino, Eliana Perotti e Stefano Pivato, il volume di Capuzzo ha il pregio di non marchiare come “fascista” tutto quanto avvenne tra le due guerre, come invece fa chi ritiene che fra il 1922 e il 1943 l’Italia fu totalmente oppressa e compressa da un regime feroce e ottuso. La realtà è diversa. La promozione del turismo “di massa” in Italia, indubbiamente favorito e potenziato dal caleidoscopico “fascismo”, prese piede sull’esempio di quanto avveniva all’estero, sia in Stati retti da democrazie parlamentari quali Francia e Gran Bretagna sia nella Spagna di Alfonso XIII di Borbone, che prese a modello l’Italia di Vittorio Emanuele III.