Il tramonto degli Statisti

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Moriar in patria saepe servata” pare abbia detto Cicerone porgendo il collo ai sicari che gli mozzarono la testa e, orrendo omaggio, la recarono ad Antonio. Al generale Paolo Puntoni, primo aiutante di campo, Vittorio Emanuele III osservò imperturbabile: “Non si può dire che da quando s’è formata l’Italia le cose siano andate proprio bene per la mia Casa! Solo mio nonno (Vittorio Emanuele II) ne è uscito bene, Carlo Alberto (il bisnonno) dovette abdicare, mio padre (Umberto I) fu assassinato”. Lo aspettavano l’abdicazione e l’espatrio. Non andò molto meglio ai maggiori statisti italiani. Nel 1861, appena proclamato il regno d’Italia, Camillo Cavour morì cinquantunenne per una febbre così violenta da suscitare sospetti e leggende. Travolto dalla sconfitta nella prima guerra d’Africa nel 1896, Francesco Crispi chiuse gli occhi a Napoli nel 1901 pressoché dimenticato. Con alto senso dello Stato il suo principale avversario, Giovanni Giolitti, volle che gli fossero rese solenni onoranze. Mussolini finì affisso per i piedi a Piazzale Loreto dopo una morte ancora al centro di diverse narrazioni. Alcide De Gasperi visse gli ultimi mesi estromesso dal potere. Aveva fallito l’obiettivo di varare la nuova legge elettorale, combattuta come “truffa”, che avrebbe assicurato stabilità al governo. Negli ultimi anni il liberale Luigi Einaudi si rifugiò tra i suoi libri nell’eremo di Dogliani. Rifiutato ogni patteggiamento mortificante, il socialista Bettino Craxi preferì morire ad Hammamet (ndr: a Enrico Mattei, perito in un attentato aereo, andò peggio per non parlare dell’assassinio di Aldo Moro e della farsa dei brigatisti registi e autori del sequestro). E Giolitti? Non gli andò molto meglio.

A chi il potere di deliberare lo stato guerra?

Appena prima dell’entrata in guerra fu costretto a lasciare Roma sotto la minaccia di attentato alla sua vita (17 maggio 1915) Giolitti visse appartato a Cavour nella sua orgogliosa solitudine di deputato da 34 anni, quattro volte presidente del Consiglio e ministro dell’Interno. Nel discorso al Consiglio provinciale di Cuneo del l0 agosto 1917 Giolitti propose di trasferire dal re al Parlamento la deliberazione dei trattati internazionali. Ne fece il caposaldo del suo programma postbellico. Tornato in Aula come presidente del Consiglio di Cuneo Giolitti riassunse il programma nazionale “in una sola parola: lavorare” (12 agosto 1919). Urgevano ordine pubblico e disciplina per scongiurare il collasso finanziario dello Stato. La sovranità sulla politica estera rimase il perno dei suoi ragionamenti, perché ne dipendevano le spese militari, il ritorno alla normalità, il superamento delle tensioni nel Paese. Vi tornò nel discorso di Dronero del 12 ottobre 1919. Senza evocare le prerogative della Corona osservò “la più strana delle contraddizioni” degli ordinamenti italiani:“Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del parlamento, può invece, per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra; e non solo senza le approvazioni del Parlamento, ma senza che né Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati […]. Nel 1848, quando fu sancito l’articolo 5 dello Statuto, il segreto diplomatico era norma di tutti gli Stati d’Europa, e le guerre erano fatte da eserciti professionali; ora invece […] le guerre sono diventate conflitti di popoli, che si gettano uno sull’altro con tutta la massa della popolazione atta alle armi, con tutti i mezzi di distruzione dei quali possono disporre, e il conflitto cessa soltanto quando una delle parti è in completa rovina. È quindi vera necessità storica che i rapporti internazionali siano ora regolati dai rappresentanti dei popoli, sui quali è giusto che cadano queste terribili responsabilità […].Come corollario necessario dell’autorità data sulla politica estera al parlamento, la dichiarazione di guerra dovrà sempre esser sottoposta in precedenza alla sua approvazione. Sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza intelligenza e senza coscienza riescano a portare in guerra un popolo contro la sua volontà”.

Lo Statuto era flessibile. Toccava al Parlamento, non a Vittorio Emanuele III, fare la prima mossa. Incaricato dal Re di formare per la quinta volta il governo, Giolitti propose di conferire al Parlamento il potere di “deliberare” guerra (altra cosa dal “dichiararla” e dal “proclamarla”: prerogativa del sovrano), ma il disegno di legge non fu discusso. Sciolta la Camera, lo ripresentò. Invano. Si dimise. Se ne videro le conseguenze dal 10 giugno 1940 quando per la seconda volta l’Italia entrò in guerra contro grandi potenze (Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Stati Uniti d’America…) senza approvazione preventiva delle Camere, ormai ammutolite.

Dal 1923 ad oggi, un secolo dall’amaro crepuscolo di uno statista liberale

Giolitti dalla Provincia di Cuneo, nell’ultimo discorso agli elettori (Dronero, 16 marzo 1924) ripercorse rapidamente “le ragioni dell’azione politica”. Evocò la guerra implacabile condotta contro di lui dal partito popolare e citò la lettera a Malagodi (“che cosa può venire di buono per il paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?”). Non disse parola sulla crisi di fine ottobre 1922. Il governo Mussolini non era nato in Parlamento ma era costituzionale. Nominato dal sovrano, aveva prestato giuramento di fedeltà al re e allo Statuto, si era presentato alle Camere e aveva ottenuto la fiducia “dai partiti liberali e democratici alla quasi unanimità”. Era stato il Parlamento, non il governo, a varare la nuova legge elettorale, detta “Acerbo” dal nome del suo relatore, approvata a maggioranza dalla commissione presieduta proprio da Giolitti. Il proposito di trasferire dalla Corona al Parlamento l’approvazione dei trattati internazionali, ovvero la sovranità nazionale, era ormai archiviato. Il 17 dicembre 1925 ventitré consiglieri sottoscrissero la richiesta che il presidente della Provincia fosse politicamente allineato col governo nazionale: doveva avere la tessera del PNF o il beneplacito di Mussolini. L’amministrazione locale attendeva un cospicuo finanziamento straordinario per la prosecuzione di opere pubbliche avviate da anni. Furono i cuneesi (consiglieri del partito popolare, vari “liberali”, gli sparuti nazionalfascisti) a tradire Giolitti. Lo volevano privare dell’incarico, tribuna alternativa per rivolgersi al Paese, come aveva fatto anche nella Grande Guerra. Il 21 dicembre si dimise da presidente. Venne dimenticato per quasi mezzo secolo: “Ministro della mala vita” secondo la miope e ingenerosa etichetta appiccicatagli dall’interventista Gaetano Salvemini e da tanti sedicenti democratici. Ora lo deplora anche Paolo Mieli nelle pagine del  “Corriere della Sera”. Giolitti aveva chiesto di non disperdere il ricordo di Cavour, Azeglio, Rattazzi, Lanza e Sella. Il 18 gennaio 1926 il consesso cuneese prese atto sbrigativamente delle sue dimissioni. Il presidente provvisorio della seduta si oppose anche a leggerne il messaggio perché, a suo dire, era già iniziata la votazione. Così “a larga maggioranza” le sue dimissioni furono approvate senza neppure la rituale proposta di ripensamento.

L’eredità

Nei quarantasei anni dalla prima elezione alla Camera dei deputati e nei quaranta di consigliere provinciale Giolitti parlò dalle sedi istituzionali ai suoi elettori. In rarissime funzioni civili pronunciò poche parole. Predilesse il contatto diretto con la popolazione. Stringeva mani, ricambiava saluti, chiacchierava con la curiosità del pius agricola gravato della responsabilità di pater familias della Nuova Italia. Quando poteva conversava in dialetto, con Vittorio Emanuele III o con i compaesani. Non si rivolse mai alla “piazza”. Non mirò mai ad attizzare passioni irrazionali. Additò invece gli ideali dai quali era nata l’Italia libera, indipendente e una, con un Parlamento demandato a modificarne gli ordinamenti secondo la volontà dei cittadini, dal 1912 elevati a elettori, compartecipi della sovranità. Preparò sempre accuratamente i discorsi. Li stese, corresse e copiò di suo pugno. Ciascuno di essi era frutto di lunghe ricerche sintetizzate in montagne di appunti. Ogni discorso veniva poi distillato in cartelle fitte di frasi lapidarie, spesso con parole sottolineate. Infine stringeva il tutto in una scaletta sintetica. La parola fluiva alta, solenne, rapida. Il 16 marzo 1928 motivò il suo voto contrario alla legge, proposta dal ministro nazionalfascista Alfredo Rocco, che attribuiva al Gran consiglio del fascismo la scelta dei deputati. Poiché “esclude(va) qualsiasi opposizione di carattere politico, (essa) segna(va) il decisivo distacco dal regime retto dallo Statuto”.

               Aldo A. Mola

(estratto rivisto dell’articolo pubblicato da Il Giornale del Piemonte il 29.1.2023)

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