Sul Debito pubblico italiano in vorticosa crescita
Non c’è alcun dubbio che sia un pericolo. L’enorme debito pubblico contratto dallo Stato nei decenni passati da un lato è servito per finanziare la crescita e lo sviluppo, ma dall’altro ha alimentato corruzione, clientele e interessi particolari. Il fatto che nel dopoguerra il nostro fosse un regime politico bloccato ha sicuramente contribuito in maniera determinante: ai partiti di governo servivano soldi per mantenere il consenso e per combattere gli avversari comunisti, finanziati fino al 1977 da Mosca. Ma ne abbiamo pagato e ne paghiamo ancora tutte le conseguenze. Nella prima metà degli anni Settanta, Il vincolo finanziario fu una delle leve per condizionare le strategie di Aldo Moro e impedire la modernizzazione del nostro sistema. Dopo la caduta della Prima Repubblica, è stato il pretesto per smantellare l’industria di Stato, uno dei punti di forza dell’Italia post-bellica, attraverso la svendita dei cosiddetti gioielli di famiglia. E in tempi più recenti, per controllare partiti (io continuo a definirli simulacri di partiti) e governi, costringendoli a tenere basso il profilo geopolitico del nostro Paese.
La colpa è innanzitutto italiana, sia chiaro. Ma gli altri cercano ovviamente di trarne ogni profitto.
Ho stampato, incorniciato e appeso alla parete del mio studio una frase attribuita a Mayer Amschel Rothschild (o un suo successure), capostipite di una delle più potenti e trasversali famiglie di banchieri.
Consiglio di fare altrettanto a chiunque coltivi un qualche interesse per la politica e la gestione della cosa pubblica: mettendo da parte le teorie del complotto, spiega tuttavia in modo semplice e brutale come funziona il meccanismo. Di questi tempi, poi… Eccola:
«La nostra politica è quella di fomentare le guerre [militari, politiche o economiche], ma dirigendo Conferenze di Pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto possa avere guadagni territoriali. Le guerre devono essere dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre di più nel loro debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere».
Molto istruttiva!
Quanto dura questo conflitto…
Chiunque abbia orecchie e occhi ben aperti non può non accorgersi che a più di un mese dall’inizio della guerra in Ucraina sta crescendo un atteggiamento di disaffezione. C’è una netta inversione di tendenza di cui andrebbero individuate e discusse le cause.
Dilaga la propaganda filo-Putin? Non credo. Non interessa più a nessuno il destino dell’Ucraina? Non mi pare. E allora?
Parlo con chiunque, ovunque. E soprattutto, ascolto. Una ragione è che l’opinione pubblica comincia a interrogarsi. Sì, avete capito bene: si pone delle domande. La più ricorrente: ma possibile che non ci fosse un modo per impedire che si arrivasse fino a questo punto? Un’altra: a quali conseguenze rischiamo di andare incontro? Una terza: il gioco vale la candela? E potrei continuare.
Può piacere o no, ma sono domande che ormai prescindono dai torti e dalle ragioni. Nascono da stati d’animo molto profondi, che per loro natura sono irrazionali: l’incertezza per il presente, la paura per il futuro. Ma attenzione, non sottovalutarli. La gente comune non ne può più del pervasivo (e invadente) pollaio televisivo che, lungi dal fornire risposte, accresce solo l’ansia. E neppure dell’atteggiamento ossessivamente pedagogico e spocchioso di gran parte della stampa scritta, che provoca fastidio, insofferenza. L’opinione pubblica è ormai oltre. Per citare l’agente Cia Ed Hoffman (Russell Crowe), il co-protagonista di “Nessuna verità”, lo splendido film di Ridley Scott sulla minaccia del terrorismo mediorientale, l’opinione pubblica ora vuole solo sentirsi dire che è finita.
Giovanni Fasanella