Non fu né congiura né “colpo di Stato”
Il pomeriggio del 25 luglio 1943 il Re revocò Benito Mussolini da Capo del governo, informandolo che lo sostituiva con il Maresciallo Pietro Badoglio. Fece quanto previsto dall’articolo 65 dello Statuto: “Il Re nomina e revoca i suoi ministri”. A differenza di quanto poi asserito dal duce e viene ripetuto da “scrittori” tendenziosi, il “cambio” non fu né complotto né “colpo di Stato”. Nella revoca e nella nomina, da tempo in preparazione e (a quanto pare) ignote solo a Mussolini che credeva di sapere tutto. Mussolini non era solo capo del governo ma anche duce del partito unico, affiancato dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Bisognava scongiurare il rischio di reazioni incomposte o il ritorno alla guerra civile strisciante del 1919-1922. Alleata della Germania, l’Italia aveva gran parte dei propri militari “oltre i confini”, come documenta Paolo Fonzi (ed. Le Monnier), mentre dall’arco alpino alla Sicilia i tedeschi (sia indivisionati, sia “sfusi”) erano numerosi, bene armati e motivati. Infine, l’assalto anglo-americano al territorio nazionale, la netta superiorità dell’aviazione nemica e i suoi pesanti bombardamenti non solo su installazioni militari, dalle ripercussioni imprevedibili, costringeva alla resa e al tempo stesso esigeva un cambio del regime politico, atteso dagli Alleati, divergenti nelle strategie ma uniti nella decisione di mettere fuori combattimento l’“Italia fascista”. Fu Vittorio Emanuele III a mettere fine al “regime” fascista.
La precipitazione
Lo sbarco e l’avanzata anglo-americana in Sicilia, come un tocco contro l’ampolla, fecero precipitare la soluzione da mesi in sospensione. Ma il sospeso era torbido e il soluto non risultò affatto cristallino. Il 25 luglio l’unica certezza rimase la Corona, garante dello Stato. Le divisioni tra i partiti e tra il loro insieme e la Corona risalivano all’intervento del 1915 nella Grande Guerra e ai suoi postumi. Risultarono insuperabili. Pesarono nelle ore decisive e proiettarono la loro ombra sui tre anni seguenti, sino alla soluzione finale: il referendum sulla forma dello Stato del 2-3 giugno 1946.
I senatori per un cambio di passo
La “narrazione” identifica la “caduta di Mussolini” (e/o del fascismo) con il voto del Gran consiglio del fascismo che poco dopo le 2 del mattino del 25 luglio a maggioranza “invitò il Governo a pregare la Maestà del Re affinché Egli voglia assumere con l’effettivo comando delle forze armate quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono” (v. nota finale). In realtà, benché enfatizzata dalla narrativa, più corriva a drammatizzare che a spiegare, la famosa “seduta” fu approdo di uno dei rivoli carsici che facevano emergere un’Italia alternativa al regime di partito unico. Un’iniziativa poco nota e tuttavia significativa fu la richiesta rivolta il 22 luglio da sessantatré senatori al presidente Giacomo Suardo di convocare la Camera Alta in seduta plenaria, “data la gravità della situazione”. (1)
Le trame del 25 luglio
Una seconda trafila emerse in prossimità del 25 luglio. Ne fu esponente di spicco un personaggio pressoché sconosciuto, quasi misterioso e tuttavia per qualche momento protagonista: Domenico Maiocco. Impiegato all’Istituto nazionale della previdenza sociale, nel 1936 Maiocco fu condannato al confino di polizia come “socialista, antifascista e massone” (2). Il suo ruolo è narrato da Ivanoe Bonomi nel “Diario di un anno: 2 giugno 1943-10 giugno 1944”. Ministro della Guerra nell’ultimo governo Giolitti (1920-1921), suo successore alla presidenza del Consiglio, rimasto ai margini della politica militante dopo la mancata rielezione nel 1924 e depennato dal novero dei “sorvegliati”, dalla seconda metà del 1942 Bonomi fu “nella fortunata condizione di poter assumere la funzione di promotore e di guida” dei partiti e dei movimenti antifascisti, i cui esponenti frequentavano la sua abitazione romana in Piazza della Libertà, n. 4. Non davano nell’occhio, eppure non erano illustri ignoti: i liberali Alessandro Casati, Alberto Bergamini (a contatto con il comunista Concetto Marchesi, biografato da Luciano Canfora, che a sua volta fa intravvedere come anche il celebre classicista sia stato forse raggiunto da un raggio della “Vera Luce”), i democratici Meuccio Ruini, Pietro Tomasi della Torretta, i democristiani Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro, i socialisti Romita e Vernocchi. Quel comitato informale ipotizzò in primo tempo un governo militare di breve durata, da sostituire rapidamente con un esecutivo “politico”. Il 14 luglio Bonomi propose a Badoglio di assumere la presidenza di un governo di cui egli stesso sarebbe stato vicepresidente: preludio a un ministero “con uomini politici delle diverse correnti dell’antifascismo: liberali, democratici, cattolici, azionisti, comunisti e socialisti”. Bonomi avrebbe indicato i ministri politici, Badoglio quelli militari. Tutte ipotesi. (3)
Esaminate le diverse prospettive del più che probabile governo Badoglio, il comitato interpartitico condivise il parere di De Gasperi: liquidato Mussolini diveniva necessario un accordo con gli anglo-americani. Associarsi al governo comportava di condividere il passivo della resa. Questa doveva gravare solo sul Re: capro espiatorio. Di lì la previsione di un “dissidio insanabile fra le aspirazioni del paese e la volontà della Corona”.
La “defascistizzazione” fu opera del Re e di Badoglio
Il 27 luglio Bonomi presiedette due riunioni dei sei partiti antifascisti che “agitò molti problemi senza prendere conclusioni concrete”, andò a colloquio con Badoglio e ne trasse “una buona impressione”. Il Maresciallo non aveva perso tempo. Come documentano i verbali dei suoi governi, pubblicati a cura di Aldo G. Ricci, quello stesso giorno Badoglio fece il necessario, senza attendere suggerimenti. Con ogni evidenza i regi decreti-legge del 27 luglio, pubblicati nella “Gazzetta Ufficiale” del Regno il 2 agosto, erano frutto di lunga preparazione, precedente il 25 luglio. Vanno ricordati perché costituirono la svolta voluta dal Re e attuata dal governo da lui nominato per aprire il dialogo con gli anglo-americani:
-soppressione del Partito nazionale fascista,
-del Gran consiglio del fascismo,
-del Tribunale speciale per la difesa dello Stato,
-divieto di fabbricazione e uso di bandiere e emblemi di associazioni e partiti politici,
-abrogazione delle norme contenenti limitazioni in dipendenza dello stato di celibe,
-controllo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale,
-conferma dello stato di guerra,
-movimento di prefetti (collocamento a riposo o a disposizione di quelli nominati per meriti fascisti)
-scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, istituita con la legge 19 gennaio1939, n. 129 (una decisione apparentemente “dovuta” ma al tempo stesso incauta), (4)
-altre misure urgenti per i ministeri di Guerra, Marina e Aeronautica.
A due giorni dalla sua formazione, il governo Badoglio varò la “defascistizzazione”. La sospensione del Parlamento sovraespose la Corona che affrontò la seconda e non meno impegnativa partita dell’estate 1943: uscire dal conflitto mentre, con il pretesto di soccorrerla, altre divisioni germaniche vi irrompevano in assetto di guerra. Ignara delle decisioni assunte dalle Nazioni Unite, l’Italia post-fascista riteneva di avviare trattative armistiziali e di avere diritto a riconoscimenti in misura del suo sostegno alla guerra contro la Germania, come prospettato dalla Dichiarazione di Quebec del 18 agosto 1943. Invece cozzò con l’imposizione della “resa senza condizioni”, decisa nella conferenza di Casablanca, il cui peso venne scaricato sulle spalle di Vittorio Emanuele III, come reiteratamente e rumorosamente chiesto dall’ala antimonarchica più intransigente del comitato interpartitico presieduto da Bonomi. (5)
Aldo A. Mola
L’articolo del prof. Aldo Mola è una rielaborazione di un suo saggio apparso sul Giornale del Piemonte di domenica scorsa 23 luglio.
Note:
1. Nell’auspicio che “Governo e Popolo si stringano unanimi intorno alla sacra Persona della maestà del Re Imperatore nel proposito incrollabile di resistere ad ogni costo”. Tra i firmatari, “tutti presenti in Roma”, figurano esponenti della tradizione liberal-nazionale propria del Senato: Bollati, Mambretti, Umberto Ricci, Albertini, Della Gherardesca, Motta, Rotigliano, Costamagna, Gigante, Nomis di Cossilla, Cini, Clerici, Drago…Tutto conduce a ritenere che la richiesta sarebbe stata sottoscritta anche da Agnelli, Falck, Burgo, Pirelli, Volpi e da un lungo elenco di militari, diplomatici, magistrati, accademici e senatori “per censo” se si fossero trovati nella capitale.
2.Dopo varie traversie, il 7 giugno 1943 fu eletto gran maestro della Massoneria Italiana Unificata (MIU) sorta a marzo con l’obiettivo di superare le antiche divisioni tra Grande Oriente e Gran Loggia d’Italia. Volle dimostrare ai “fratelli” anglo-americani che in Italia esisteva, sia pure a ranghi ridotti, un Ordine liberomuratòrio “regolare”, fedele alle istituzioni statuali, a cominciare dalla Corona, come sin dalle origini accadeva in Gran Bretagna e negli USA, i cui “padri fondatori” erano stati tutti massoni, a cominciare da George Washington. Sulla presenza massonica tra gerarchi e prominenti dell’antifascismo e dell’affarismo molto ha scritto Paolo Cacace in “Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio” (ed. il Mulino). Secondo Cacace, andrebbero contati Vittorio Emanuele Orlando, il ministro della Real Casa, Pietro d’Acquarone e il Re stesso: ma solo sulla base di sussurri e ammiccamenti. Fantasie. Cacace osserva che “prove inconfutabili allo stato attuale non esistono”. Insistervi, quindi, allontana dalle poche certezze acquisite. Tra queste vi è appunto Maiocco, lo “sconosciuto messaggero del colpo di Stato” che fece pervenire al Re l’ordine del giorno Grandi-Bottai, come ha scritto il suo biografo Antonino Zarcone (Annales, 2015).
3.Alle ore 17 del 24 luglio, proprio mentre iniziava la seduta del Gran consiglio, Bonomi (come scrive nel Diario) aprì la porta al “noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco, piemontese, che è in molta intimità con il quadrumviro De Vecchi”. Questi gli avrebbe detto che “nella mattinata Grandi e Federzoni lo avevano persuaso a firmare un ordine del giorno inteso a restituire al re tutte le sue prerogative, invitandolo allo stesso tempo a farne uso per allontanare Mussolini. Il De Vecchi si sarebbe mostrato sicuro della vittoria ed avrebbe preconizzato, come conseguenza del voto, il ritiro di Mussolini e l’incarico ai presentatori dell’ordine del giorno di costituire un Governo nuovo”. Questo “avrebbe fatto appello alla concordia nazionale, invitando i maggiori uomini dell’opposizione a dare la loro collaborazione. Il De Vecchi non si sarebbe fatta alcuna illusione sulla mia risposta, pure desiderava di farmi sapere preventivamente che mi sarebbe stato rivolto un invito amichevole”. Bonomi rispose a Maiocco che quanto gli aveva riferito gli “pareva un romanzo”. L’ipotesi “di un governo Grandi-Federzoni-De Vecchi liquidatore del fascismo mussoliniano era sogno di menti oscurate”.
4.Lo evidenziò lo schema di decreto legislativo preparato per la seduta del 9 settembre (che però non ebbe luogo) e non fu più ripresentato. Esso ammise che “la chiusura della XXX legislatura e la carenza di uno dei due rami del Parlamento” derivante dallo scioglimento della Camera elettiva “rendono impossibile, per ora, l’esercizio della funzione legislativa da parte del Senato e, d’altra parte, la ripresa dei lavori parlamentari non potrà non essere preceduta della emanazione di nuove norme intese a disciplinare anche la materia suddetta”. Insomma, il governo avocò il potere di legiferare “per causa di guerra” anche in circostanze e per materie nelle quali “la causa di guerra non influisce menomamente”.
5.Cominciò ad affiorare l’intimazione di immediata abdicazione del sovrano. Divenne assordante dopo l’annuncio dell’“armistizio” e il trasferimento del Re e del governo da Roma a Brindisi il 9 settembre: vicende che meritano ricostruzione obiettiva, come quella in programma nel Convegno “L’estate del Re”, che si terrà il prossimo 7 ottobre 2023 a Vicoforte (Cuneo).
Nota finale:
25 LUGLIO: L’ORDINE DEL GIORNO GRANDI-BOTTAI
Prima documentare, poi commentare. Il celebre ordine del giorno approvato da 19 Consiglieri sui 28 presenti alle 2.20 del 25 luglio 1943 recita: “Il Gran Consiglio del Fascismo […] esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza e la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia per la salvezza e l’onore della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
I gerarchi non proposero dunque la revoca e la sostituzione di Mussolini da capo del governo, né un nuovo governo, né la demolizione del regime di partito unico, né, meno ancora, l’armistizio separato. Proposero invece di “attribuire” alla Corona, al Gran consiglio (cioè, a sé stessi), al governo (così com’era: zeppo di mediocri esponenti del Partito fascista) e al parlamento (con la “Camera dei fasci” dal 1939 “nominati” anziché “eletti”) compiti e responsabilità che erano vigenti. Inoltre, proposero al Re di assumere l’effettivo comando delle forze armate, mai personalmente esercitato da alcun sovrano dal 1848 al 1940, quando esso fu preteso da Mussolini, capo del governo e titolare dei tre ministeri militari. In tal modo i gerarchi cercarono di scaricare sulla Corona la responsabilità della guerra, dell’incombente sconfitta e quindi della ormai inevitabile resa. Si chiamarono fuori dal regime, ma non poterono uscire dalla sua storia.