Ammetto che ero stato diffidente verso Luciano e la sua naturale cordialità, sembrava uno schermo, del resto era uno scrittore e giornalista famoso con una ventina di libri. La stramba idea svanì subito, non appena ebbe inizio una collaborazione che è diventata amicizia. Il merito della ‘scoperta’ di Luciano è di Licia Cossetto, la sorella di Norma, la medaglia d’oro al valor civile per le tragiche vicende delle foibe, alla quale sono debitore. Ricordo che una decina di anni fa, forse di più, era stato aggredito da un male terribile, per miracolo ne era uscito quasi come prima anzi, ancora più empatico. Scriveva molto bene, soprattutto di storia senza essere uno storico, perché era un grande giornalista che sapeva raccontare i fatti, con coraggio, non voleva fare accademia. A volte, quando raramente apriva lo scrigno dei suoi ricordi, in questo simile al sodale Giorgio Galli, ti rendevi conto che la storia era lui, la sua vita era un pezzo della storia italiana dal dopoguerra ad oggi. Il padre ligure era stato trasferito per lavoro con tutta la famiglia a Roma, dove nacque nel 1936; quando nel luglio del ’43 gli Alleati bombardarono senza pietà la popolazione della Città eterna per costringere il Re alla resa, lui era un bambino di quasi sette anni che provò davanti a sé la distruzione e il cinismo della guerra proprio a san Lorenzo, dove intravvide il Papa tra la gente a portare conforto.
Nel dopoguerra studia a Genova, è un giovane monarchico (ideale che ha sempre mantenuto fino in ultimo come senatore del Regno), dopo il liceo si avvia subito al giornalismo, diventa giornalista d’inchiesta, disposto a varcare i confini della Cortina di ferro, in DDR, con un po’ di preparazione intervista i personaggi che ebbero un ruolo nei vari eventi storici. Famoso è il suo libro ‘Operazione Walchiria’, su come la guerra avrebbe potuto finire un anno prima e risparmiare milioni di vite innocenti. In altre situazioni è coinvolto con relazioni dirette personali che l’hanno portato a dure esperienze. Nel caso Calabresi si è impegnato tantissimo, sia nel maggio del 1972 all’indomani dell’omicidio, pubblicando sul Corriere Mercantile di Genova, di cui era diventato caporedattore, un atto di accusa morale verso buona parte della stampa che si era schierata ad accusare apertamente il Commissario di essere la causa della morte dell’anarchico Pinelli. Appoggiò il desiderio della vedova di fare chiarezza su quella spietata esecuzione, tanto che alcuni anni dopo pubblicò un’intervista a Gemma Calabresi e diversi libri, con le rivelazioni del pentito Marino che fecero luce sul tragico evento e il ruolo di Lotta Continua.
Seguono i brutti “casi” di Sossi e Tortora: entrambi di Genova, sono amici di vecchia data, con loro dimostra la qualità dell’amicizia. Mario Sossi era il sostituto procuratore nel processo ad un gruppo terrorista comunista, fu rapito il 18 aprile 1974 e liberato un mese dopo. Un’esperienza terribile per un magistrato severo come Sossi, che toccò con mano le vaste connivenze di cui godevano le BR e gli altri gruppi terroristi. Luciano ne fu coinvolto fino al punto di essere minacciato di morte dalle BR, dovette muoversi con grande cautela e imparare a difendersi allenandosi al tiro a Rapallo, ad avere un’arma sempre pronta con sé insieme con la macchina da scrivere.
Passato il periodo critico arriva la sua occasione di miglioramento professionale approdando a Milano con incarichi di prestigio, prima partecipa alla nascita de Il Giornale, poi diventa caporedattore di Gente, un rotocalco che allora andava fortissimo nelle edicole. Preciso, gran lavoratore, affabile, era l’uomo macchina del settimanale più letto dalle famiglie italiane.
Purtroppo, arriva il fulmine a ciel sereno: è il 17 giugno del 1983, arresto di Enzo Tortora all’Hotel Plaza di Napoli con l’accusa di essere un trafficante di droga.
Enzo era del 1928, Luciano del ’36, per cui era quasi un fratello maggiore, stesse frequentazioni, stessa compagnia teatrale giovanile, più impegnato con i Liberali il primo, ondeggiante nell’ambiente della destra genovese il secondo. Erano anche legati professionalmente, come giornalisti. Tortora in quel momento era il giornalista e presentatore televisivo più famoso in Italia: dopo l’arresto subito la stragrande maggioranza della stampa nazionale si schierò a spada tratta con i magistrati di Napoli contro Tortora, un conformismo malato che ha segnato la categoria dei giornalisti. Luciano fece di tutto per aiutare l’amico vittima di un’accusa incredibile e strampalata, però bevuta in un sol sorso dalla maggioranza dei colleghi. Cercò di salvare il salvabile, scrisse personalmente ai giudici tramite una collega, nuora del procuratore di Napoli. Schierò il periodico Gente su posizioni critiche verso l’inchiesta, caso quasi unico, che gli costò la carriera. I giudici non pagarono per i loro errori, invece pagarono quelli che tennero la schiena dritta (schema che si ripete sovente in Italia).
Ci vorrà l’arrivo di Cossiga al Quirinale per ripristinare un minimo di giustizia, con l’invito a Tortora a salire a Palazzo quando era presidente dei Radicali, ma ancora nelle grinfie dei magistrati napoletani. Alla prima condanna, quasi una farsa, seguì l’assoluzione piena, confermata dalla Cassazione; fu aiutato da un grande avvocato come Raffaele della Valle. Luciano fu sempre vicino a Enzo Tortora, nonostante l’acrimonia dei colleghi che pregustavano l’esecuzione della vittima sacrificale voluta dal sistema giudiziario-politico. Pannella fu l’unico a tendergli una mano, un aiuto che si rivelò salvifico per il ristabilimento della giustizia per Tortora, per cui anche Luciano si iscrisse più volte al Partito Radicale, a dimostrazione della sua apertura mentale, essendo lui proveniente dall’ambiente cattolico tradizionale, coniando una nuova tipologia politica: radicale di destra, fieramente anticomunista.
L’ultima grande inchiesta che ha realizzato, con determinazione, è stata quella sull’assassinio di Benito Mussolini e Claretta Petacci a Dongo. Grazie a Franco Servello, Giorgio e Paolo Pisanò scrisse il celebre volume la ‘Pista inglese’, tanto avversato da una parte politica italiana, non solo per le ipotesi su dove fosse veramente finito il famoso “oro di Dongo” ma per l’implicita revisione della storia della II Seconda guerra mondiale. Il suo primo libro è del 2002, con altre edizioni della ARES fino al 2016. La verità lentamente è venuta a galla, anche se i libri di storia per ora la ignorano completamente; altri ricercatori come Giovanni Fasanella e M. J. Cereghino hanno trovato altre tracce con ‘Il golpe inglese. Da Matteotti a Moro: le prove della guerra segreta per il controllo del petrolio e dell’Italia ‘, nel 2014, seguito nel 2022 da ‘Nero di Londra’ sul ruolo avuto dai servizi segreti inglesi nella nascita e conclusione del fascismo.
Ora, con Luciano se ne va un pezzo del mondo considerato ‘antico’. Lascia un vuoto all’Istituto di Studi Politici Giorgio Galli di cui era presidente onorario; insieme al prof. Giorgio Galli e all’avv. Felice Besostri è stato uno dei principali fondatori a Milano dell’Istituto, ognuno portatore di idee ed esperienze differenti, con in comune la stessa passione per il lavoro, lo studio e la scrittura, la meticolosità nell’affrontare qualsiasi compito, la puntualità svizzera, l’affidabilità e l’onestà intellettuale. La naturale gentilezza di Luciano non era da confondere con la disponibilità a cambiare idea o versione dei fatti storici per qualche convenienza del momento. Giorgio, Felice e Luciano erano dei monoliti, disponibili a rimetterci di tasca loro su eventuali vantaggi pur di mantenere la barra dritta. Sono doti molto rare, oltre tutto condite da notevole sobrietà e umiltà. I suoi articoli o i saggi storici erano sempre curatissimi, puliti, senza una virgola fuori posto e soprattutto chiari, leggibili e godibili. Era profondamente legato alla Liguria e al Golfo del Tigullio. Era stato presidente onorario dell’associazione culturale “Tigulliana” e consigliere dell’associazione internazionale “Amici del monte di Portofino”.
Lascia due figli e tre giovanissimi nipoti, i suoi vivacissimi “garibaldini”, come scherzosamente li chiamavamo.
Daniele V. Comero
Quello di Daniele è un omaggio molto sincero e commovente. Tanti dettagli della vita di Luciano Garibaldi mi erano sconosciuti. Saperli, ora che è mancato, accresce la mia ammirazione morale ed intellettuale per lui e acuisce il dispiacere di averlo perduto come “faro” dei nostri percorsi di riflessione e approfondimento sulla Storia, nel rigore che lo caratterizzava. Ci lascia comunque la preziosa eredità dei suoi scritti e il gradito ricordo della sua amichevole, schietta cordialità.